L’idealismo strutturale tra cultura e istituzioni: la pace da una prospettiva di dottrina costruttivistica
Giuseppe Casale
Il costruttivismo: un idealismo strutturale
Nel catalogare le forme di pacifismo attivo, Norberto Bobbio aveva distinto un approccio strumentale, uno istituzionale e infine uno finalistico. Il primo si concentra sui mezzi, per sostituire quelli violenti con altri incruenti nella risoluzione di vertenze e conflitti. Il secondo individua i fattori strutturali (politici, giuridici, economici) su cui intervenire per prevenire il ricorso alle armi. L’ultimo guarda all’essere umano, con l’intento di rettificarne le inclinazioni psicologiche ed etico-culturali ad annoverare la violenza tra i comportamenti ammissibili, se non anche stimabili[1].
Nella visione di Bobbio, il pacifismo finalistico costituisce la forma più efficace sul piano astratto ma concretamente la meno attuabile, in consonanza con l’avviso che ritiene velleitario – se non utopico –investire sul cambiamento di mentalità. Eppure, nelle scienze sociali, esiste una scuola, o una dottrina (considerando gli indirizzi normativi che ha assunto), specificamente applicata a tale dimensione. Ancorché poco rinomato nel discorso pubblico, il costruttivismo sociale segna una svolta epistemologica nelle attitudini promozionali verso la cooperazione e l’interazione incruenta[2]. Il contributo offerto ai peace studies appare alquanto significativo, tanto più nell’odierno clima di destabilizzazione che agita gli assetti egemonici globali.
Muovendo dalla critica al positivismo e all’empirismo razionalistico, il costruttivismo osserva nella realtà sociale il prodotto di una stratificazione di esperienze collettive che, sottoposte agli stimoli degli eventi e consolidate dalle conferme interpretative, genera modelli comportamentali condivisi. I processi cognitivi entro l’ambiente sociale risentono dell’interazione tra i soggetti che lo popolano e, al tempo stesso, orientano questi ultimi su direttrici standardizzate.
Riconoscendo la centralità della variabile ideazionale nell’autorappresentazione dei gruppi umani organizzati, il costruttivismo ritiene che le idee procurano prospettive normative in grado tanto di sostenere quanto di disinnescare la propensione alle opzioni violente. Ciò comporta la possibilità di definire, dalle espressioni istituzionali al quotidiano svolgimento dei rapporti sociali, canoni di legittimità e criteri di scelta atti a convogliare le energie verso strategie relazionali uniformi.
Le società, assieme alle loro configurazioni politiche, sono infatti condizionate non soltanto da fattori materiali. Anzi, il significato a questi attribuito dipende dalle coordinate ideazionali che elaborano il precipitato delle loro evidenze e lo traducono in comportamenti. Sicché l’interpretazione generalizzata del dato fattuale genera condotte a loro volta produttive di ulteriore realtà sociale con annesse strutture. Pertanto il costruttivismo – in tal senso assimilabile a un “idealismo strutturale” – pone attenzione alla cultura e alla comunicazione, che afferiscono ai codici dell’apprendimento collettivo e della socializzazione delle norme ricavate dall’esperienza comune, concorrendo alla sedimentazione dei valori accettati. Dunque, la circuitazione ideazionale potrà condurre tanto ad ammettere quanto a respingere il ricorso alla violenza, ovvero, tra i due estremi, a modulare lo spettro delle condizioni-soglia della sua ammissibilità, in quanto a forme e intensità d’esercizio.
Inteso come metateoria dei processi cognitivi di rilevanza collettiva, il costruttivismo spiega la ragione per cui le risposte comportamentali al medesimo stimolo fattuale differiscono a seconda delle società e del momento storico. Se sui processi in parola incidono ex ante i codici comunicativi predisposti a uso delle narrazioni da socializzare, si ricava che ciascuna unità partecipa al circolo ermeneutico in cui è inserita, riproducendo e alimentando il sistema.
Con queste premesse, è possibile trarre elementi suggestivi sulle implicazioni tra cultura, educazione e pace. Assumere i dispositivi del sistema sociale come inevitabilmente conformi al dato insuperabile della violenza e della guerra significa perpetuarne la normalizzazione assuefativa, in forza di pregiudizi di tipo confermativo, sottesi da impliciti asserti deterministici. Il che trova corrispondenza in una pervicace confusione tra la pretesa descrittiva e la declinazione prescrittivo-normativa dell’antropologia hobbesiana. Con ciò sottostimando le opportunità di impiegare le istituzioni come ambito di coltivazione di differenti chiavi ideazionali e conseguenti opzioni comportamentali: esattamente all’incrocio tra consapevolezza e volontà; tra la persuasione sull’obiettiva convenienza di strategie cooperative e negoziale e l’intenzione, eticamente sostenuta, di favorire e difendere la pace.
Dalla teoria sociale alle relazioni internazionali
Se la realtà sociale è un tessuto intersoggettivo, non ipotecato da inderogabili leggi naturali né da rigide meccaniche fattuali, ciò significa che essa si alimentata delle proprie strutture di senso, consistenti in costrutti mentali mossi dalla “logica dell’appropriatezza” nei confronti delle idee prevalenti[3]. Con questo non si nega che identità e interessi siano variabili rilevanti, ma si sostiene che esse producono effetti attraverso la forma, il significato e le implicazioni a assegnati nel senso comune[4].
Ciò vale sul piano delle relazioni sociali, allargandosi alle dimensioni in cui le unità agenti nel sistema sono le collettività istituzionalizzate, tra cui gli Stati. Per tale ragione, il costruttivismo si è proposto come paradigma di indagine in seno alla teoria delle relazioni internazionali[5]. A sua volta esso si è articolato in filoni di studio forieri di ulteriori strade e precisazioni interpretative.
L’agenda di ricerca concentrata sul tema dell’anarchia internazionale deve il suo abbrivio agli studi di Alexander Wendt, che modificano l’assunto realista per cui, in assenza di un Leviatano mondiale, la guerra si dà come opzione ordinaria e necessitata. Uno dei primi lavori di Wendt a riguardo reca un titolo perspicuo: «Anarchy is what states make of it». Preso atto dell’assenza di un potere in grado di disciplinare direttamente e universalmente i conflitti tra identità e tra interessi, il filone wendtiano ritiene che questi non si danno come fattori primordiali, variabili indipendenti che determinano in modo univoco le strategie internazionali. Né i comportamenti degli Stati, pur in apparenti giochi a somma zero, conducono puntualmente a guerra. Piuttosto rilevano le rappresentazioni di tali variabili, che dipendono dinamicamente dalle interazioni tra gli attori, normativizzando i significati di volta in volta emergenti. Non ogni Stato muove minacce contro qualsiasi rivale: la diversificazione rimanda al genere e al grado di interiorizzazione degli approcci relazionali, selezionando criteri di opportunità, preferenze e deroghe[6]. Di qui l’individuazione di tre “culture anarchiche”. L’anarchia hobbesiana, negando vincoli all’uso della forza, assume il conflitto e l’inimicizia come via normale. L’anarchia lockeana circoscrive l’uso della violenza a requisiti di legittimità rispetto a scopi e mezzi, tipici del sistema interstatuale westfaliano: basandosi su canoni di reciproco riconoscimento (diritti/doveri e conseguenti discipline relazionali), osserva non nemici ma rivali, moderando e disciplinando l’evenienza di conflitti cruenti. L’anarchia kantiana esclude la violenza come strumento di risoluzione, elegge l’armonia a migliore criterio-guida per preservare identità e coltivare interessi e, per tale via, perfeziona il concetto (già “lockeano”) della sicurezza come bene sistemico e collettivo. In definitiva, si tratta di profili idealtipici che ciascuno Stato può inverare in modalità diversificata, a seconda dei momenti e degli interlocutori: modelli comunque tesi a spiegare, anche con una lente storico-politica, le variazioni e le evoluzioni fenomenologiche del sistema internazionale[7].
Un altro filone si concentra sugli Stati come membri della società internazionale, focalizzandosi sul ruolo svolto dalle organizzazioni e dalle istituzioni inter- e sovra-statuali come vettori di socializzazione di norme e valori (mediante influenza, imitazione e persuasione) presso le élites politiche: processi tanto più efficaci se sintonizzati con l’apprendimento rivolto alle opinioni pubbliche[8]. Ne sortisce un istituzionalismo sensibilmente differente dalla versione funzionalista, che valorizza la capacità delle agenzie tecnocratiche nel soddisfare bisogni reali, come pure dalla versione neofunzionalista, con i suoi accenti sulle progressive integrazioni settoriali, economiche e amministrative, mediante uno spill-over culminante nella prevalenza della governance sovranazionale. Più in generale, l’istituzionalismo di marca costruttivista si distingue dall’impronta razionalista, fondata sulla razionalità strumentale applicata al calcolo dei benefici ricavabili dall’osservanza delle regole comuni. La chiave costruttivista invece assume la possibilità che le regole stesse configurino fattori endogeni alla membership istituzionale, anziché dettami esterni: a chi vi aderisce si dischiude l’occasione di partecipare a rapporti costitutivi che disegnano attitudini condivise.
Ancora un altro indirizzo si dedica alla politica estera dei singoli Stati sin dalla struttura cognitiva applicata ai rapporti con l’esterno, declinata operativamente dalle scelte dei governi. Ciò rimanda particolarmente alla funzione che le agenzie educative svolgono nel socializzare cultura e identità, in relazione al modo in cui promuovere gli interessi nazionali quali sicurezza, prestigio e benessere[9].
Su queste basi, è evidente la possibilità di assumere il costruttivismo per una proficua contaminazione con l’approccio culturalista dei peace studies. Così già a partire dalle coordinate ricavabili dal Triangolo elaborato da Johan Galtung, che distingue una violenza diretta (fisica, verbale, psicologica), estrinsecazione sintomatica di altre variabili sociali; una violenza strutturale, installata in meccanismi impersonali di prevaricazione, sfruttamento, conculcamento, normalizzati come “regole del gioco” del potere (politico, sociale, economico); una violenza culturale, giustificata con rinvio a valori stimati (onore, sacralità, giustizia, ecc.) e così interiorizzata dal senso comune[10]. Distinzioni, in definitiva, propedeutiche alla possibilità di individuare settori e contesti in cui propiziare i circuiti ideazionali atti a promuovere una cultura di pace.
Pace come alfabetizzazione relazionale: una risposta all’idealismo liberale
Cultura della pace, stando alle coordinate dell’idealismo strutturale, si può tradurre operativamente in alfabetizzazione relazionale della società. Questo è la prospettiva con cui il costruttivismo intercetta la dimensione educativa, con l’intento di bonificare gli assunti belligeni che, dal mondo sociale, affluiscono nelle sfere della decisionalità politica. E viceversa, in una circuitazione autorafforzativa. A riguardo, dice molto l’assonanza con le tesi fatte proprie dall’Unesco, che a partire dalla Dichiarazione di Siviglia sulla violenza del 1986 assevera l’esigenza di smantellare, in ogni ambito dell’istruzione e della formazione, la credenza per cui la violenza sia il destino inscritto nel codice genetico dell’umanità, stante l’insostenibiltà scientifica di ogni giustificazione basata su determinismi evoluzionistici, biologici, psicologici, ontologici, non suffragati da prove certe e puntuali[11]. Il tutto in vista di una responsabilizzazione a più livelli capace di elaborare strategie cooperative di prevenzione della violenza e di gestione incruenta dei conflitti, in linea con la concezione olistica dell’homo empath icus in luogo della supina accettazione dell’homo homini lupus[12].
A dire il vero, un’agenda così prefigurabile non ha goduto di sviluppi sempre coerenti, neanche nelle società liberaldemocratiche di un Occidente apparentemente più incline a recepirla. Ponendosi nell’ottica del Sud globale, non mancano i riscontri alla violenza strutturale su cui continuano a fondarsi le fortune di una parte di mondo a carico di altre. Evidenze che concorrono a erodere l’assunto neo-kantiano in virtù del quale le democrazie liberali non muovono guerra. Non si tratta solamente di registrare il tipo di regime caratterizzante gli Stati che, dal secondo dopoguerra a oggi, risultano più intensamente e più frequentemente impegnati in conflitti bellici, a ciò aggiungendo i proventi che le rispettive economie ricavano dal complesso militare-industriale. Le aspettative di una “pace perpetua” assicurata dalle democrazie liberali non hanno trovato sostegno empirico inappuntabile, considerando, conti e dati storici alla mano, l’inclinazione a muovere guerra nei confronti di regimi estranei alle comunità di sicurezza occidentali in condizioni di inferiorità militare[13]. Oltretutto, l’ipotesi minimalista della “pace democratica”, per cui le democrazie non fanno guerra tra loro, oltre che sottoposta a problematizzazioni definitorie e a relativizzazioni storiche, si espone a una significativa critica mossa dalla dottrina realista: allorché una concomitante assenza di conflitti armati ha riguardato lo spazio interno al blocco socialista guidato dall’Urss, speculare alla pace vigente nel blocco egemonico a guida Usa (peraltro pacificamente partecipato anche da autocrazie) sono concepibili piuttosto delle “paci separate”: dovute al potere disciplinare esercitato da un egemone indiscusso sui propri subalterni, al netto delle qualità elettive dei regimi coinvolti.
Neppure la formula della interdipendenza economica pare avere offerto garanzie incontrovertibili. Le confutazioni inferte da due guerre mondiali all’ottimismo positivistico della Belle Époque non sono bastate a relativizzare la fiducia riposta in quel concetto di “pace commerciale” quale ulteriore fattispecie dell’idealismo liberale. Gli esordi della teoria delle relazioni internazionali come scienza autonoma, a cavallo tra XIX e XX secolo, erano stati procurati da una congerie di studi che preconizzavano la desuetudine della guerra, ritenuta irrazionalmente controproducente in un mondo avviato, attraverso i progressi scientifici e tecnologici, a produrre ricchezze godibili soltanto in un ordine mondiale pacificato[14]. Smentite sonore ve ne sono state, ma non abbastanza per archiviare l’affidamento che, ancora alla vigilia Terzo Millennio, ha salutato con entusiasmo gli effetti definitivamente pacificanti dell’interdipendenza richiesta dal mercato globale. Eppure un’interdipendenza culturalmente ed eticamente disimpegnata, che non si incarica di dirimere la brama di controllare risorse e di dettare regole del gioco funzionali a consolidare e potenziare i primati conseguiti dai players vincenti. Se necessario, anche al costo di ribaltare il tavolo, mediante l’innesco di guerre[15]. Il tutto condito dall’assuefazione culturale a un’interdipendenza costruita sullo scambio ineguale, sullo sfruttamento dell’altrui sottosviluppo, su leve predatorie che inducono i Paesi dotati di scarso potere negoziale e soggetti ad aiuti condizionali a specializzarsi a misura della maggior redditività degli attori maggiorenti, inducendo stravolgimenti e squilibri nel tessuto socioeconomico autoctono[16]. Forme di tacita violenza strutturale, pur sempre collegate alla gestione di un altrettanto strutturale potere di concedere, negare, condizionare o minacciare le altrui risorse, materiali e immateriali.
Dalle parole ai fatti: le criticità ideazionali del presente
Alla luce dell’idealismo strutturale che guida le analisi costruttivistiche, sarebbe un errore relegare le matrici della guerra alle sole decisioni dei governi, esulando dal coinvolgimento dell’uomo comune nelle sue ordinarie fruizioni culturali. Simile constatazione suggerisce di prestare attenzione al registro mediatico del nostro tempo. In frangenti in cui si giunge a perorare la formazione di una “mentalità di guerra”, anche il lessico è sintomo di traslazioni patologiche della concezione polemologica dell’esistenza a piani persino impropri, reclutando espressioni (“guerra al virus”, “bomba d’acqua”, “trincea ambientalista”, “genocidio energetico”), che rivelano ben più del gusto enfatico dell’iperbole. Maggiormente significativa è la concomitante propensione a confezionare linguaggi manichei, aggressivamente polarizzanti, con una disinvolta disposizione a demonizzare e stigmatizzare intere classi di individui, alimentando quel che è stato definito un “razzismo d’opinione” atto a istruire processi nell’agorà comunicativa. In esso non manca l’ingrediente populistico, esibito dal riduzionismo che rifiuta la complessità dei fenomeni e relative cause profonde. Emarginando ed esecrando senza appello, esso si attesta sulla contrapposizione accusatoria e divisiva (diaballein: “separare” ma anche “calunniare”): già con siffatta grammatica si precostituiscono, sul piano ideazionale, gli ostacoli ai beni relazionali che – stando alla traccia di Maritain consonante con le espressioni della Pacem in terris – gravitano attorno al bene della pace[17].
Dalla neolingua delle polarizzazioni alle rappresentazioni conformistiche delle criticità sociali e politiche il passo è breve. Versioni di realtà che elargiscono certezze a buon mercato preservano il pubblico consumatore dallo smarrimento interpretativo che discende dall’uso critico della ragione, omologando i giudizi. Tornando alle lontane suggestioni costruttivistiche (diremmo ante litteram) offerte da Tocqueville nei capitoli conclusivi del secondo volume (1840) de La démocratie en Amerique sulla potenza dei pregiudizi socializzati, si possono tuttora riconoscere le fenomenologie dell’omologazione sottesi a “modelli di pensiero” confezionati con la seduzione del senso identitario, come pure attraverso l’intimidazione di ritrovarsi, laddove riconosciuti difformi, in un sempre più elastico novero degli indegni[18].
Non è casuale la corrispondenza tra questi processi e un tenore della politica internazionale che riesuma la contrapposizione tra bene e male, dividendo l’umanità in schieramenti inconciliabili. In ciò avvalendosi di un moralismo che mobilita consensi attorno a guerre di civiltà galvanizzate dalla “mostrificazione” per cui non esistono rivali ma nemici esistenziali: disumanizzati secondo criteri valoriali a uso e consumo di chi se ne fa estensore per sostituire il termine “guerra” (quando voluta e promossa) con il concetto di un intervento di polizia criminale contro Stati e nazioni pericolosi per l’umanità intera. Ciò basta a sofisticare altri concetti (giustizia, umanità, diritto, ecc.), come pure a tacciare i perplessi di intelligenza con il nemico, dando una volta di più ragione a Tucidide allorché osservava che per rovesciare la realtà occorre prima rovesciare le parole.
Così dalle parole ai fatti. Laddove – come rilevato già da Carl Schmitt – le paci moralizzatrici in quanto punitive predispongono rinnovate ostilità, ontologizzano e ipostatizzano culturalmente l’identità del nemico, esibendo l’intenzione purificatrice ad libitum di utilizzare la politica per «continuare la guerra con altri mezzi», con un vistoso capovolgimento dell’adagio di von Clausewitz[19]. Una tendenza, questa, denunciata già nel secolo scorso, guardando retrospettivamente alla Prima Guerra mondiale quale evento-simbolo della crisi – tutt’ora perdurante – dell’anarchia lockeana inaugurata con la Pace di Augusta nel 1555 e compiutamente a Westfalia nel 1648: formule che, almeno in Europa, posero fine alle guerre di religione, ma revocate surrettiziamente nel ’900 previa la mobilitazione ideazionale della “guerra giusta” agitata da religioni politiche sotto specie ideologica.
Inforcando le lenti diagnostiche del costruttivismo, è possibile riconoscere l’onda lunga del secolo (pur detto) breve in un clima di narrazioni binarie che, nei termini di un confessionalismo secolarizzato, evocano rese dei conti apocalittiche, aggiornate come viatico a un traguardo escatologico di perfettistico compimento universale. Anche in questo caso vale l’andamento palindromo tra sfera interna ed esterna, tra società domestica e politica internazionale. Lo evidenziano, per esempio, le influenze tossiche che paralizzano le iniziative pacificatrici nei teatri di guerra, per cui alle organizzazioni internazionali viene inibita la funzione di trasformare le preferenze degli attori coinvolti, per rassicurare e orientare ai processi negoziali. Lo stesso dicasi della retorica che, mettendo al bando qualsiasi conato moderatore, ingiunge di “schierarsi dalla parte giusta della storia”, ammonisce con lo slogan “con noi o contro di noi”, individuando la neutralità come tradimento o collusione: a onta delle esperienze in cui proprio la presenza mediatrice di Paesi terzi diede il contributo attivo a dialoghi credibili per la composizione dei conflitti.
Il ragionamento sul cordone ombelicale tra il piano culturale a quello fattuale si estende all’ambito della guerra guerreggiata, in considerazione della retroazione inerziale esercitata dagli sviluppi tecnologici nel settore delle armi sulla radicalizzazione di culture inimicali, cui d’altronde può corrispondere un processo di direzione inversa: una rappresentazione disumanizzante del nemico incoraggia la propensione a dotarsi di strumenti di annientamento, assolutizzando la distanza tanto morale quanto fisica dalla vittima (si pensi alle frontiere dell’intelligenza artificiale applicate ai sistemi d’arma)[20].
Ma se si tratta di una possibilità, anziché di una necessità deterministica, il costruttivismo segnala che si può addivenire anche a risultati differenti. Del tipo realizzato grazie ai processi di sensibilizzazione, persuasione e socializzazione a vasto raggio attivati sul piano culturale dalle organizzazioni non governative, coronati dalla messa al bando delle mine antiuomo mediante la Convenzione di Ottawa del 1997. Ragionamento analogo vale per gli impegni sul piano tanto politico quanto culturale che in passato hanno offerto risultati sul controllo degli armamenti, persuadendo a considerare la sicurezza un bene godibile solo se garantito in modo olistico, invece minacciato dalle corse unilaterali al riarmo[21].
Educare ai bisogni di pace: la persona come sestante culturale
Non si può essere così ingenui da ritenere che, su simili successi, pur obiettivamente realizzati, abbia inciso soltanto la componente ideazionale, al netto di congiunture storiche, transazioni e variabili di molteplice natura. Ma sarebbe d’altro canto fuorviante negare l’apporto degli interventi spesi sul piano culturale. Se non altro, la prospettiva costruttivista spiega l’efficacia, nel bene e nel male, dei meccanismi di socializzalizzazione da cui scaturiscono i comportamenti collettivi approvabili: da un lato la persuasione esercitata dagli atti comunicativi spesi da soggetti accreditati e diffusamente ritenuti credibili; dall’altro l’influenza sociale, che dispensa benefici come appagamento psicologico, sentimento di appartenenza e rispetto, speculari a sanzioni quali disapprovazione, esclusione, colpevolizzazione. Il che – ripetiamo – può valere sia per singoli individui, sia per i gruppi, sino ai più ampi contesti istituzionali dell’associazione umana. Pertanto, anziché chiedersi in termini assoluti se l’elemento ideazionale sia in grado di incidere su decisioni e comportamenti, risulta appropriato osservare quando e come esso è in condizione di rendersi efficace.
In un senso o nell’altro, intervenire per emancipare l’ambiente sociale ovvero le interazioni politiche dalla preferenza per la violenza comporta pur sempre un agire educativo. Sicché educare, sia pure alla pace, significherebbe, in fondo, riprogrammare artificialmente l’umanità, nei termini di un’etica contestualistica ovvero sulla base di una precompresione demiurgica della natura umana in quanto prodotto infinitamente plasmabile? Cosa occorre per non confondere gli strumenti suggeriti dall’idealismo strutturale costruttivista con ipotesi di ingegneria antropologica, ovvero con la stessa deviazione perfettistica manifesta nei guasti ideologici (e non solo) del ’900? Insomma, quale il sestante necessario a una navigazione sicura, che preservi dal naufragare nell’ambizione prometeica di “reinventare” l’essere umano?
Dalle coordinate conferite ai peace studies da Galtung possiamo senz’altro ricavare la funzione regolativa dei bisogni umani fondamentali: alla sopravvivenza, al benessere sufficiente, all’identità e alla libertà di perseguire i primi tre. Non a caso, proprio i bisogni conculcati definiti nel Triangolo della Violenza. I quali attengono sostanzialmente allo sviluppo integrale della persona, che continua a essere precisato dalle espressioni filosofiche – quando non schiacciate sull’unilateralismo confessionale – del personalismo cristiano[22]. Più semplicemente, bisogni che attengono alle premesse espressive della dignità umana, la quale nella supina acquiescienza alla violenza o nel consenso all’aggressività incontra la propria negazione: in quanto negazione dell’“altro sé”. Ma è lo stesso etimo dell’educare (ex ducere) a fornire una risposta viepiù elementare, trattandosi di un’operazione che non crea dal nulla, ma interviene maieuticamente sulle migliori risorse sostantive che già albergano nell’essere umano. Le quali stanno già a suggerire tutta la naturalità che si sprigiona dal bisogno di pace universalmente avvertito da ogni membro della famiglia umana. E sperimentato concretamente nell’incontro con il mondo ideazionale altrui, ove si dischiude la convergente sostenibilità del proprio modo di intendere la realtà sociale[23]. Bisogno inesausto, che interpella la responsabilità di ciascuno, sia questi l’uomo della strada o lo statista.
[1] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna 1979, pp. 79-97.
[2] Per un’utile ricognizione della letteratura introduttiva al costruttivismo, si vedano, tra gli altri, R. Jackson et alii, Introduction to International Relations: Theories and Approaches, Oxford UP, Oxford 2019, cap. 8; C. Simon-Belli, Costruire la pace – Decostruire la guerra, Stella Mattutina, Scandicci 2016, cap. 4; I. Hurd, Constructivism, in C. Reus Smith, D. Sidnal (eds.), The Oxford Handbook of International Relations, Oxford UP, Oxford 2008.
[3] Cfr. K.M. Fierke, Constructivism, in T. Dunne et al. (eds.), International Relations Theory: Discipline and Diversity, Oxford UP, Oxford 2010; Id. Critical Methodology and Constructivism, in K.M. Fierke – K.E. Jørgensen (eds.), Constructing International Relations: The Next Generation, Sharpe, London 2001. Sulla “logica della appropriatezza” esaminata dall’istituzionalismo sociologico (come chiave distinta dalla “logica della consequenzialità”), si veda il seminale studio di J.G. March – J.P. Olsen, Rediscovering Institutions: The Organizational of Politics, Free Press, New York 1989.
[4] Cfr. N. Tannenwald, Ideas and Explanation: Advancing the Theoretical Agenda, «Journal of Cold War Studies», 7(2), 2005, pp. 13-42, a proposito del concorso regolativo esercitato sul comportamento collettivo da ideologie (quali sistemi di valori condivisi), convinzioni normative, convinzioni causa-effetto e prescrizioni di indirizzo politico.
[5] Doveroso il rimando a A. Wendt, Social Theory of International Politics, Cambridge UP, Cambridge 1999, principale tra gli studi fondativi dedicati ai nessi epistemologici (con relative premesse ontologiche) tra la performatività sociale dei processi ideazionali e il comportamento degli attori in campo internazionale.
[6] A. Wendt, Anarchy is What States Make of It: The Social Construction of Power Politics, «International Organization», 46(2), 1992, pp. 391-425.
[7] Offrendo versioni sempre più raffinate delle proprie tesi, Wendt è giunto a individuare tre livelli di interiorizzazione delle regole internazionali: il primo, corrispondente alla visione realista, trova gli attori propensi ad adeguarvisi solo se costretti; il secondo, conforme alla visione dell’istituzionalismo razionalistico di matrice liberale, trova l’obbedienza motivata da considerazioni di rango utilitaristico; il terzo rimanda al riconoscimento della legittimità delle regole stesse, laddove si determina la loro maggiore efficacia nel disciplinare e orientare i comportamenti.
[8] Esemplare al riguardo M. Barnett – M. Finnemore, The Power of Liberal International Organization, in M. Barnett et al. (eds.), Power in Global Governance, Cambridge UP, Cambridge 2005.
[9] Su questo già P. Katzenstein, Cultural Norms and National Security, Cornell UP, Ithaca1996. Sulla stessa scia, illustrativa dei capisaldi “culturalisti” di tale approccio, è T. Hopf, Social Construction of International Politics, Cornell UP, Ithaca 2002.
[10] J. Galtung, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici: il Metodo Transcend, Undp, Centro Studi Sereno Regis, Torino 2006.
[11] Sulla rilevanza che il costruttivismo attribuisce all’Unesco resta esemplare M. Finnemore, International Organizations as Teachers of Norms: The United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization and Science Policy, «International Organization», 47(4), pp. 565-597.
[12] Cfr. J. Rifkin, The Empathic Civilization: The Race to Global Consciousness in a World in Crisis, TarcherPerigee, New York 2010.
[13] Cfr. M. Clementi, Politica interna e pace democratica, in F. Andreatta et al., Relazioni internazionali, il Mulino, Bologna 2007.
[14] Per un’agile rassegna della letteratura in argomento, si veda L. Bozzo, La grande illusione: all’origine delle relazioni internazionali. Introduzione all’edizione italiana, in R. Jackson et al., Relazioni internazionali, Egea, Milano 2020.
[15] Per un’analisi delle implicazioni tra diversi teatri di guerra, il controllo delle risorse energetiche e le frizioni egemoniche (regionali e globali) del presente, ci si permette di rinviare a G. Casale, Transizione energetica e violenza strutturale: una chiave per la comprensione dei conflitti glocali contemporanei, «Educatio catholica», 9(1-2), 2023, pp. 57-21.
[16] Per un apprezzamento delle costanti storiche dell’interdipendenza ineguale collegata alla ricerca di posizioni di primato, sempre validi G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996; F. List, Il sistema nazionale di economia politica, Isedi, Milano 1972.
[17] Cfr. V. Possenti, Pace e guerra tra le nazioni. Kant, Maritain, “Pacem in terries”, Roma, Studium 2014; G. Alfano – G. Casale (a cura di), Pace tra le genti. A sessant’anni dalla “Pacem in terris”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024.
[18] Cfr. G. Faso, Lessico del razzismo democratico, DeriveApprodi, Roma 2010.
[19] Cfr. C. Schmitt, Sul rapporto tra i concetti di guerra e di nemico (or. 1938), trad. it. in Id., Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, Milano 2015; Id., Il mutamento di significato della guerra (or. 1950), trad. it. in Id., Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.
[20] Quantunque non annoverabile nel costruttivismo, Schmitt, a conclusione de Il nomos della terra, a proposito dei bombardamenti aerei e sulla scorta dell’annientamento atomico piovuto sul Giappone, scriveva: «la mancanza di relazioni tra il belligerante e il territorio, congiuntamente alla popolazione nemica che in esso si trova, diventa assoluta. [...] Chi è superiore vedrà nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis non è più realizzabile. La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento della guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva. [...] Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali. [...] Ricordiamoci dei cinque dubia circa justitiam belli, che Francisco de Vitoria aveva esposto, e più ancora dei suoi nove dubia quantum liceat in bello justo. Oggi stiamo sperimentando la risposta alle sue domande. La scienza naturale moderna e la sua tecnica ci danno la risposta: Tantum licet in bello justo! Ne consegue che è storicamente maturato il tempo di nuove linee di amicizia. Ma non sarebbe bene se esse fossero realizzate mediante nuove criminalizzazioni» (ed. cit., pp. 428 ss.).
[21] Cfr. C. Ulbert – T. Risse, Deliberately Changing the Discourse: What Does Make Arguing Effective?, «Acta Politica», 40(3), 2005, pp. 351-367.
[22] Come in V. Possenti, Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013.
[23] Cfr. A. Rosetto Ajello (a cura di), Nel mondo degli altri. Il cammino impervio dell’educazione alla pace, CESV Messina 2010.