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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

L’approccio sociologico americano conosciuto col nome di “etnometodologia”, è stato per anni una sorta di tabù per la sociologia italiana. Pochi, infatti, sono stati gli studiosi italiani 1 che hanno tentato di interpretare i suoi principi teorici, con grandi sforzi, peraltro, nel delinearne chiaramente le modalità di applicazione nello studio di contesti empirici concreti. Una prima difficoltà si è riscontrata sicuramente a causa del linguaggio ostico e qualchepdf volta oscuro delle sue opere fondamentali. Una seconda, probabilmente diretta conseguenza della prima, è dipesa dalle aspre critiche che l’establishment sociologico americano ha rivolto all’etnometodologia, considerata per molti anni una sorta di movimento settario della sociologia 2. La gran parte di questi problemi, tuttavia, sono stati accentuati dall’atteggiamento schivo, ironico e polemico nei confronti della sociologia istituzionale tenuto per anni dal padre fondatore, nonché figura centrale del movimento: Harold Garfinkel 3.

Alla luce di questa premessa, il presente saggio si pone l’obiettivo di tracciare brevemente i tratti peculiari del pensiero di Harold Garfinkel, cercando di rivolgere l’attenzione a quegli aspetti che hanno determinato maggiormente la storia dell’etnometodologia nel panorama sociologico internazionale.

1. La formazione di Garfinkel
Harold Garfinkel nacque in una piccola cittadina del New Jersey, Newark, il 29 ottobre 1917, da una famiglia ebraica di piccoli commercianti 4. La sua formazione fu inizialmente economica, per imposizione del padre. Frequentò, infatti, dei corsi di contabilità e amministrazione gratuiti presso l’università di Newark, lavorando la notte nel negozio paterno.

Nel frattempo entrò in contatto con un gruppo di studenti ebrei interessati alla sociologia, tra cui Melvin Tumin, Herbert McClosky e Seymour Sarason, che frequentavano un corso di statistica sociale tenuto da Paul F. Lazarsfeld (che alcuni anni dopo avrebbe sviluppato la sua “sociologia scientifica”) all’università di Newark. Le discussioni con questi studenti fecero nascere in Garfinkel l’interesse per gli studi sociologici 5. Così, nel 1939, Garfinkel iniziò a frequentare il dipartimento di sociologia nell’università del North Carolina, Chapel Hill, con una borsa di studio. Qui venne introdotto allo studio di una vasta gamma di prospettive teoriche che avrebbero determinato in modo significativo lo sviluppo dell’etnometodologia: dalle teorie dell’azione sociale di Thomas e Znaniecki, a quelle di Burke e Wright Mills sui vocabolari di motivi, alla fenomenologia di Husserl.

Dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale, tra il 1946 e il 1952 Garfinkel conseguì ad Harvard il Ph.D. in sociologia, sotto la diretta supervisione di Talcott Parsons, in quel periodo la figura più importante nella sociologia accademica nord-americana, e la cui influenza, insieme a quella di Alfred Schütz, saranno predominanti nelle sue riflessioni su molte tematiche centrali dell’etnometodologia.

Mentre conseguiva il dottorato ad Harvard, Garfinkel insegnò due anni all’università di Princeton. In quel periodo organizzò una conferenza con Richard Snyder a Wilbert Moore, chiamata Problems in Model Construction in the Social Sciences, alla quale invitò a partecipare teorici innovativi come Herbert Simon, Talcott Parsons, Kenneth Burke, Kurt Wolff, Alfred Schütz e Paul Lazarsfeld, con l’idea di sviluppare degli studi interdisciplinari sul comportamento nelle organizzazioni, iniziativa che però non ebbe molto seguito.

Nel 1954 Garfinkel, grazie a Philip Selznick, iniziò a insegnare presso il dipartimento di sociologia e antropologia nell’allora sconosciuta università di Los Angeles in California (UCLA), da cui si è formalmente ritirato nel 1987, e dove rimane tuttora attivo come professore emerito.

La formazione culturale di Garfinkel avvenne in un momento critico per la storia americana. La Depressione, la seconda guerra mondiale e l’immediato Dopoguerra furono periodi di rapida transizione sociale, di istanze antielitarie e democratiche delle classi più povere e delle minoranze etniche, come la comunità ebraica di cui Garfinkel faceva parte, nei confronti dell’establishment politico. L’atmosfera di discussione e dibattito, soprattutto durante la guerra e negli anni Cinquanta e Sessanta, incrementarono la nascita di dipartimenti di sociologia da cui ci si aspettava una soluzione a tutti i problemi sociali del periodo. Molti giovani studenti furono attratti da questo genere di studi e Garfinkel fu uno di questi.

E’ importante ribadire che egli ricevette la sua prima formazione sociologica all’università del North Carolina, prima dell’affermarsi delle idee di Parsons e della sociologia scientifica di Lazarsfeld. Qui Garfinkel aveva appreso teorie e metodi sociologici vari e spesso divergenti tra loro, ispirati principalmente allo studio delle prospettive teoriche che si concentravano sul l’attore e sull’interazione sociale e a tecniche qualitative di ricerca, quali l’osservazione partecipante e le storie di vita, allora molto diffuse. Prima della seconda guerra mondiale, infatti, l’approccio sociologico dominante negli Stati Uniti era ancora costituito dalla Scuola di Chicago, ispirata dal lavoro di Park, Thomas, Cooley e Mead, per cui l’etnografia era ancora il principale strumento metodologico utilizzati nelle scienze sociali. Pertanto, i temi filosofici ed epistemologici che interessavano la prospettiva dell’attore, il problema della riflessività e la validità della conoscenza e della percezione erano una parte fondamentale del curriculum sociologico di ogni studente. Nonostante si cominciasse già a sentir parlare di sociologia scientifica, il passaggio, tuttavia, non era ancora avvenuto. Così, la formazione che Garfinkel ricevette durante gli anni di università fu ampiamente teorica, con una forte enfasi sui problemi sociali 6.
Quando Garfinkel andò ad Harvard, si era già diffusa la teoria volontaristica dell’azione di Parsons (1937), che avrebbe dovuto fornire una risposta ai numerosi problemi rimasti irrisolti nelle teorie utilitaristiche relativi al tema dell’ordine sociale (Hilbert, 1992). L’obiettivo di Parsons, come è noto, era di creare una nuova teoria sociologica che promuovesse l’integrazione di diverse discipline, come la psicologia e l’antropologia, oltre alla sociologia, per contrastare la vocazione “iper-empirista” fino ad allora dominante nella sociologia nord-americana (Ruggerone, 2000, p. 53).

Lo struttural-funzionalismo di Parsons in combinazione con i metodi statistici di Lazarsfeld vennero così a definire la nozione di “scientifico” e “obiettivo” nelle discipline sociologiche. Dall’inizio degli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Sessanta la “sociologia statistica” con orientamento funzionalista costituì il paradigma dominante nelle scienze sociali americane. Quando, però, questa prospettiva mostrò i suoi punti deboli e le falle di un approccio non perfettamente “scientifico”, come si era creduto per alcuni anni, ma soprattutto fu evidente che essa non era in grado di dare risposte alle nuove istanze che emergevano nella società americana degli anni Sessanta, cominciarono allora ad affermarsi nuovi approcci: l’etnometodologia fu uno di questi.

Per molti giovani sociologi Garfinkel fornì la prima introduzione alla fenomenologia e un nuovo differente approccio alle teorie sociali classiche. Pochissimi studenti in quel periodo erano occupati a mantenere lo status quo. Molti erano interessati invece al cambiamento, ai movimenti sociali e alle rivoluzioni, a nuovi modi di pensare che non fossero più così occidentali, logici e da classe media.

E’ in questo contesto, dunque, che si colloca la nascita dell’etnometodologia, intesa come diretta opposizione alla fede nel formalismo, nella ragione razionale, nelle rappresentazioni matematicizzate del comportamento sociale che caratterizzarono la sociologia del Secondo Dopoguerra (Rawls, 2000, p. 564).

2. La figura di Garfinkel nell’etnometodologia

Il tono polemico nei confronti della sociologia tradizionale è un tema ricorrente negli scritti degli etnometodologi e di Garfinkel in particolare. Quest’ultimo, infatti, inizia la sua critica già nella tesi di dottorato, molto prima della nascita dell’etnometodologia, ponendo in evidenza la sua posizione nei confronti della teoria dell’azione sociale di Parsons e della fenomenologia di Schütz. Sebbene fosse stata scritta sotto la supervisione di Parsons, e si occupasse delle sue teorie, infatti, la dissertazione 7 non abbracciava il sistema concettuale struttural-funzionalista, allora emergente, ma cercava di scavare ancora più in profondità nei problemi fondamentali della teoria dell’azione, affrontati, ma secondo Garfinkel in modo incompleto, ne La struttura dell’azione sociale (Parsons, 1937). In particolare, Garfinkel era insoddisfatto, e cercò nella sua tesi di porvi rimedio, della trattazione imprecisa di come avviene la conoscenza e la comprensione nell’attore sociale espressa dalla teoria dell’azione volontaristica.

Le differenze con la posizione di Parsons sono riassunte all’inizio della sua dissertazione dove afferma che, mentre questi aveva sviluppato il pensiero di Weber tentando una sintesi tra i fatti della struttura sociale e i fatti della personalità, il suo tentativo sarebbe stato, invece, quello di sviluppare «un sistema sociale generalizzato costruito solamente dall’analisi delle strutture dell’esperienza» (Garfinkel, 1952, p. 1). Per fare ciò, Garfinkel cercò una rete teorica che portasse direttamente alle procedure con cui gli attori analizzano le loro circostanze pratiche, progettano e producono i propri corsi di azione, rete teorica che trovò negli scritti fenomenologici di Alfred Schütz e di Aron Gurwitsch, e che egli trasformò in uno schema di lavoro per produrre indagini sperimentali del fenomeno sociologico dell’ordine sociale (ibid., p. 2), da cui si sarebbe sviluppato successivamente il programma di studi etnometodologici 8.

Le critiche a Parsons e alle teorie sociologiche che derivano dalla sua impostazione, si accentuano negli scritti successivi di Garfinkel. In particolare, egli rivolge le sue accuse alla cosiddetta “sociologia convenzionale” (o “analisi costruttiva”, o “analisi formale”) con la quale si intendono perlopiù le teorie e i metodi derivati dalle opere di Parsons e dalla sociologia scientifica di Lazarsfeld (Garfinkel e Sacks, 1970) 9. In questa sede basti dire che il rapporto tra etnometodologi e sociologi ha assunto toni abbastanza aspri fino agli anni Ottanta, mentre negli ultimi scritti (Garfinkel, 1992, 1996, 2002) la polemica si è un po’ smorzata, poiché Garfinkel si è sforzato di chiarire la posizione dell’etnometodologia all’interno delle scienze sociali e di delineare le differenze tra gli obiettivi delle indagini etnometodologiche e quelli del resto della sociologia.

Il cambiamento di Garfinkel è tanto più evidente se si pensa al fatto che negli anni Settanta gli venne negata l’iscrizione all’American Sociological Association 10, organo per eccellenza della sociologia americana, mentre oggi l’etnometodologia ha costituito addirittura una sessione ufficiale nei meeting annuali dell’associazione.

Sembra ormai superato il periodo della nascita degli studi etnometodologici del lavoro in cui, come ci racconta Lynch (1993), Garfinkel costringeva i suoi studenti ad ottenere una padronanza “adeguata” dell’occupazione da studiare, intraprendendo dei corsi di apprendimento delle attività ad essa connesse, prima di iniziare l’indagine. Alcuni dei suoi studenti seguirono questo consiglio per la loro dissertazione e ricerca post-dottorale, imparando il lavoro di scienziati, matematici, camionisti, musicisti. In realtà, questa applicazione radicale del “requisito di adeguatezza unica” insieme al principio di “indifferenza etnometodologica” 11 costituivano l’apice della tendenza anti-teorica e anti-fondativa di Garfinkel e la realizzazione compiuta del suo programma in base al quale l’etnometodologo avrebbe dovuto accostarsi ai fenomeni in modo del tutto ingenuo (going native), diventando competente delle attività che si prefiggeva di studiare e rifiutando di utilizzare qualsiasi metodo di indagine o concetto teorico astratto convenzionale, per osservare nei dettagli di ciascuna situazione come l’ordine sociale viene endogenamente e intelligibilmente prodotto.

La maggior parte degli studenti di seconda generazione, che avevano conseguito il dottorato sotto la sua supervisione tra il 1970 e il 1980, scomparvero dai dipartimenti di sociologia e intrapresero altre occupazioni fuori o dentro il mondo accademico. In molti casi essi lasciarono la sociologia non di proposito, ma perché il tipo di ricerche che avevano svolto, incoraggiati e ispirati da Garfinkel, precluse loro la possibilità di un impiego come sociologi in un periodo in cui, tra le altre cose, l’etnometodologia non era ancora ben vista all’interno delle scienze sociali.

Del resto, lo stesso Garfinkel non ha mai applicato nelle sue indagini il requisito di adeguatezza unica in modo radicale. La sua unica ricerca pubblicata all’interno del programma di studi del lavoro (Garfinkel et al., 1981), sulla scoperta di un pulsar ottico in un laboratorio astronomico, si basa addirittura solo sull’analisi della documentazione che comprendeva conversazioni registrate e atti scritti, fornita e prodotta dagli stessi scienziati.

Oggi l’etnometodologia ha assunto posizioni meno radicali nei confronti della sociologia convenzionale, soprattutto grazie allo sviluppo di una sua “pseudo” corrente, che ha riscosso molto successo in ambito sociologico e linguistico: l’analisi della conversazione (AC). La sua assimilazione all’etnometodologia probabilmente è dipesa in gran parte dalla collaborazione che ebbero per qualche anno Garfinkel e la mente creatrice di questa corrente, Harvey Sacks. I due si conobbero durante un seminario di Parsons ad Harvard e rimasero in contatto per alcuni anni. Nel 1963 Garfinkel riuscì ad ottenere all’UCLA un posto come Assistant Professor di sociologia per Sacks (Schegloff, 1989). Nonostante avessero partecipato insieme a diverse ricerche, tuttavia, essi hanno scritto un unico saggio a quattro mani dal titolo On formal structures of practical actions che riassume il punto di vista dell’etnometodologia nei confronti di un concetto fondamentale nello sviluppo del movimento: l’indicalità degli accounts. Non entrerò qui nel merito di una discussione che richiederebbe una trattazione a parte 12, tuttavia, è necessario dire che proprio le diverse interpretazioni successive di questo concetto da parte di Sacks e Garfinkel (Ruggerone, 2000) hanno determinato, a mio avviso, quell’allontanamento teorico e pratico che rende contraddittorio e paradossale il fatto che oggi la AC continui ad essere considerata una corrente interna all’etnometodologia.

Lo stesso Garfinkel, che pure non si è mai opposto all’identificazione della AC con l’etnometodologia, si è dimostrato scettico nei confronti della sola utilizzazione di un sistema di trascrizioni formalizzato, quale quello utilizzato dagli analisti della conversazione, per trattare i fenomeni nelle loro manifestazioni reali. Egli, infatti, trova che non sia possibile riportare e cogliere gli aspetti della produzione locale dei fenomeni della conversazione attraverso la caratterizzazione formale prodotta dalla AC (Jules-Rosette, 1985, p. 38). Nonostante questa abbia in comune con l’etnometodologia l’attenzione per i dettagli e condivida con essa la preoccupazione a trattare solo oggetti reali e “naturalmente occorrenti”, Garfinkel si è chiesto come essa possa documentare e dettagliare le asserzioni generali insite nel modello della presa del turno, delle coppie di adiacenza e così via (ibid.).

In ogni caso, Garfinkel (1988, 1991, 1996) ha riconosciuto negli anni che gli studi della AC sono quantomeno “consonanti” con il programma etnometodologico. Difatti, molti etnometodologi utilizzano sempre più frequentemente le sue tecniche di trascrizione delle conversazioni 13 e, nello stesso tempo, molti analisti della conversazione si sono avvicinati all’etnometodologia e ai suoi studi delle attività ordinarie e del lavoro scientifico. Il risultato è stato una sorta di “ibridizzazione” che ha prodotto sia etnometodologi che praticano l’analisi della conversazione, sia analisti della conversazione che si avvalgono di concetti etnometodologici e in cui molto spesso non è più possibile individuare una netta demarcazione tra le due discipline 14.

Infine, occorre dire che ogni concetto introdotto da Garfinkel non ha avuto una trattazione sistematica nei suoi scritti, poiché questi era convinto (e forse lo è ancora adesso) che ogni metodo o termine usato per lo studio di un particolare fenomeno dovesse essere usato “esclusivamente” per quel fenomeno. Pertanto, si spiega in parte perché Garfinkel molto spesso parli attraverso l’uso di “slogan”, il cui senso viene esplicitato riportando le molteplici indagini da lui condotte, conii nuovi vocaboli senza definirne con precisione il significato, ripeta spesso gli stessi concetti continuamente all’interno dello stesso testo, ma utilizzando termini sempre differenti per indicarli 15. Tutto ciò, se da un lato rende la lettura dei suoi saggi a dir poco “snervante” e il lavoro di interpretazione molto pesante e complesso, dall’altro è giustificato da Garfinkel col fatto che l’etnometodologia non formula teorie, ma è concentrata sulla pura ricerca empirica. In altre parole, ciò che è importante che i lettori comprendano non è il mero significato dei concetti, ma il modo in cui quei concetti stessi si manifestano empiricamente. Conoscere il punto di vista dell’etnometodologia corrisponde cioè a “fare” etnometodologia e, in effetti, gli esempi pratici e le indagini da lui condotte rappresentano le parti più chiare e interessanti in ogni suo saggio.pdf

Nonostante le numerose critiche ricevute sin dalla nascita ufficiale dell’etnometodologia nel 1967, Garfinkel è sempre rimasto coerente nelle sue posizioni anti-conformiste, mostrando di non lasciarsi influenzare dall’opinione della comunità sociologica. Non ha neppure mai cercato di difendersi e di rispondere alle accuse sempre più dure che da più parti gli erano rivolte 16. Questo arduo compito è stato invece intrapreso dai suoi collaboratori, che hanno cercato di chiarire i punti più oscuri e controversi degli scritti di Garfinkel e di specificare la peculiarità dell’etnometodologia, spesso associata ad altre correnti di microsociologia o a uno dei metodi qualitativi di ricerca sociale.

Tutto ciò, indubbiamente denota in lui uno spirito libero e una forte personalità che, seppure hanno contribuito per anni all’emarginazione degli etnometodologi dalla sociologia accademica, hanno tuttavia suscitato molta ammirazione anche presso molti simpatizzanti dell’etnometodologia, affascinati dalla sua genialità e dall’atteggiamento ironico ed insieme modesto con cui si pone a chiunque.

Riferimenti bibliografici

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NOTE
 1 Tra questi vanno ricordati in particolare Pier Paolo Giglioli, Alessandro Dal Lago e, negli ultimi anni, Giolo Fele e Lucia Ruggerone.
 2 Ci si riferisce, in particolare, alle critiche di Coser (1975), Gellner (1975) e Wallace (1968).
 3 In verità, Garfinkel ironizza molto su questa sua paternità, sostenendo di aver generato una «compagnia di bastardi» e di «geni» (Garfinkel, 1988, 1991), riferendosi con ciò al fatto che ha sempre lasciato i suoi studenti e collaboratori liberi di  seguire le proprie strade e le proprie personali interpretazioni su che cosa fosse l’etnometodologia e su come fare indagini empiriche.
 4 Le notizie sulla biografia di Garfinkel che seguiranno sono tratte da Anne Rawls (2000), da alcuni anni curatrice delle pubblicazioni di Garfinkel, oltre che collega e amica.
 5 Tutti i membri del gruppo diventarono più tardi esponenti illustri nel mondo accademico, esercitando in vari modi un’influenza positiva sulla carriera di Garfinkel: Tumin fu antropologo a Princeton; McClosky andò ad occuparsi di scienze politiche all’università di Berkeley, contribuendo all’introduzione della ricerca in quel settore; Saranson si occupò di psichiatria all’università di Yale (Rawls, 2000, p. 555).
 6 A testimonianza di ciò basti sapere che la prima pubblicazione di Garfinkel fu un racconto dal titolo Color trouble (1940), in cui egli utilizzò il tema della discriminazione razziale per introdurre il problema dell’ordine sociale negli eventi quotidiani.
 7 La tesi, discussa nel 1952 col titolo The perception of the other: a study in social order, pur non essendo mai stata pubblicata, è circolata tuttavia negli ambienti universitari interessati all’etnometodologia. Ringrazio Lucia Ruggerone per avermene fornita una copia. Dei contenuti della dissertazione di Garfinkel si trovano comunque ampi cenni in Heritage (1984, 1987), in Hilbert (1992) e in Ruggerone (2000).
 8 Per una trattazione più approfondita della posizione di Garfinkel rispetto a Parsons e a Schütz si rinvia a Heritage (1984) e Ruggerone (2000).
 9 Sul rapporto tra etnometodologia e sociologia convenzionale si veda Lynch (1993) e Sena (2002, pp. 54-58).
 10 Fu grazie all’interessamento di Parsons che Garfinkel venne riammesso all’associazione (Benson e Hughes, 1983, p. 31). Nonostante le critiche rivolte alla sua teoria dell’azione, infatti, Parsons ebbe sempre molta stima di Garfinkel, come anche quest’ultimo nei suoi confronti.
 11 Questi due concetti sono fondamentali nella neoetnometodologia nonostante la loro interpretazione non sia del tutto univoca. Per un’elaborazione critica del loro significato si veda Ruggerone (2000), Lynch (1993 e 1999) e Sena (2002).
 12 Sul concetto di indicalità nell’etnometodologia si veda Sena (2002).
 13 Un caso esemplare è il già citato studio sul lavoro di scoperta del pulsar ottico di Garfinkel, Lynch e Livingston (1981) che riporta le conversazioni degli scienziati utilizzando proprio il sistema di trascrizione della AC.
 14 L’opinione che gli analisti della conversazione hanno di Garfinkel, tuttavia, è assai diversa da quella degli etnometodologi: essi infatti lo considerano solo come una distante “figura paterna” le cui iniziative radicali sono ormai di interesse principalmente storico (Lynch, 1993, p. xiii).
 15 Secondo Rawls (2000, p. 575), Garfinkel cambierebbe la sua terminologia frequentemente per conservare la natura aperta e provvisoria dei suoi argomenti, evitando così che chi legga i suoi scritti sviluppi un significato convenzionale per le parole che egli usa.
 16 Al contrario, Garfinkel rimproverava spesso gli etnometodologi che cercavano di difendersi dalle varie accuse, affermando che i tentativi di chiarire il “programma” o definire i collegamenti teorici dell’etnometodologia distoglievano la loro attenzione dalla ricerca concreta (Hinkle et al., 1977, pp. 9-17).

 

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