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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

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La guerra senza uomo: da Clausewitz all’I.A.

 

Andrea Ricci Maccarini

 

 

Sosteneva Hegel nelle Lezioni di Filosofia della Storia che lo Spirito Assoluto si fa strada nella realtà del Mondo e prende coscienza di sé attraverso la natura passionale dell’essere umano. Gli individui perseguono i propri particolari interessi, i quali finiscono col mescolarsi alle determinazioni universali fino a che l’opposizione delle idee non s’incarna nello scontro materiale tra Nazioni. La Storia allora avanza nel conflitto, e la guerra assume un sapore modernamente romantico, come attimo essenziale dell’infinito susseguirsi di momenti in opposizione dialettica, laddove invece i periodi di felicità rappresentano «pagine vuote della storia»[1].

Questo fascino polemologico non era nuovo, ma in Hegel si mostra su un piano originale, che attinge a piene mani dal realismo di Machiavelli proiettandolo nell’idealismo ottocentesco. Ancora nell’opera del Fiorentino nella guerra contavano l’onore e la virtù dei soldati e dei loro comandanti, tanto che l’introduzione di nuove tecnologie, le balestre prima e le armi da fuoco poi, fu osteggiata: erano strumenti che non richiedevano particolare valore, e con cui l’ultimo dei contadini poteva abbattere il più nobile dei cavalieri. Ma il punto di Hegel stava qui: lo Spirito andava verso la democratizzazione del conflitto, e la polvere da sparo fu «uno strumento fondamentale per liberarsi dalla violenza fisica e per parificare le classi», dunque:

Solo grazie a questo strumento poteva emergere il valore superiore, il valore disgiunto dalla passione personale; nell’uso delle armi da fuoco si spara contro la generalità dei nemici, contro il nemico astratto, non già contro persone particolari.[2]

Tale processo di astrazione e di “spersonalizzazione” proseguì speditamente con l’industrializzazione – Mark Twain lodò le prime mitragliatrici Gatling[3] – e continuò anche quando le testimonianze iniziarono a farsi più cupe, ovvero dalla prima decade del ‘900 in poi. Oggi i sistemi d’arma non sono solo automatici, ma anche autonomi[4], ed è legittimo chiedersi se l’atto bellico non si ponga come qualitativamente differente rispetto agli ultimi secoli, eventualmente in che modo e con quali rilevanze etiche.

Prendiamo come fulcro del confronto alcune tesi di un coevo di Hegel, Karl Von Clausewitz, la cui opera principale, il Vom Kriege, ha notoriamente avuto una grande influenza su strateghi e politici. Il testo, bisogna sottolinearlo, non è filosofico[5] – Clausewitz stesso si dichiara estraneo alla disciplina[6] – ma la costante ricerca di una connessione tra idea e realtà, ovvero tra la fredda sistematica del conflitto e le forze materiali effettivamente in gioco[7], eleva il testo oltre la polemologia, e rappresenta anche una delle difficoltà nell’interpretare correttamente il pensiero del generale prussiano: mentre i generali chiedevano ai manuali delle sintesi operative che dessero loro teorie semplici e vincenti[8], Clausewitz offriva una meta-teoria in cui, in fin dei conti, il nocciolo del successo era nella capacità dell’individuo di applicare logiche generali ad una situazione contingente: l’uomo prevale sempre su ogni teoria matematica del conflitto di tipo scacchistico.

Il primo passo in tal senso è negativo: analogamente a come Hegel esclude che lo Spirito abbia un qualche tipo di autonomia trascendente rispetto alla realtà materiale, Clausewitz definisce l’idea di una guerra teorica per provarne la sua inconsistenza. Affinché la pura astrazione dell’atto di guerra si verifichi occorrerebbe che questa: 1. fosse un evento completamente isolato, improvviso, senza collegamento con le vicende politiche antecedenti, 2. si riassumesse in una sola decisione – o in decisioni multiple ma simultanee – e 3. potesse chiudere in se stessa un risultato definitivo, senza essere influenzata dalla previsione della situazione politica successiva[9]. La guerra teorica rimane così priva di ogni valore pratico, ecco perché l’azione bellica ha sempre a che fare con la politica, rimanendone costantemente in un rapporto dialettico. Si potrebbe aristotelicamente dire che se strategia e tattica sono la fisica dell’evento bellico, la politica ne è la metafisica, cioè quel livello di astrazione più elevato che la pone, ne dà il senso e che rimane inevitabilmente, imprescindibilmente, sullo sfondo.

A questo punto si deve compiere un secondo passaggio che declina ulteriormente l’idea dell’atto bellico nella realtà attraverso la considerazione degli attriti, o frizioni: una volta che la politica ha stabilito gli obiettivi della guerra, questa non può prescindere, nella scelta della strategia, dalla considerazione delle forze effettivamente in campo, dal morale, dal terreno e da tutta quella serie di fattori che materialmente compete all’ottenimento dell’obiettivo ideale preposto. Il concetto di frizione è definito da Clausewitz in questi termini:

l’influenza di piccole cause innumerevoli che è impossibile apprezzare convenientemente a tavolino […]. L’idea di attrito è la sola che abbia sufficiente analogia genuina con quanto distingue la guerra reale dalla guerra a tavolino.[10]

L’inevitabile presenza di questi molteplici fattori incalcolabili a priori deve essere ben presente a qualsiasi grado gerarchico di comando, e qui si pone l’importanza del genio, vera chiave di volta della polemologia clausewitziana: la guerra non si vince con una matematica delle forze in campo e calcoli razionali di tipo scacchistico, bensì attraverso il coup d’oeil, il colpo d’occhio mentale che appartiene al comandante in grado di coniugare i quattro elementi in cui essa si muove – pericolo, fatiche fisiche, incertezza e caso – applicandosi con risolutezza, il «coraggio di fronte alla responsabilità»[11], per agire verso l’obiettivo superiore, strategico-politico, della propria azione. Ecco perché Clausewitz auspica una continuità costante e armonica tra strategia politica e bellica affinché il genio non perda di vista né spirito né materia della guerra. In altre parole: il prussiano esprime una teoria bellica universalmente valida ma puramente astratta, formale, che deve necessariamente inerire ad una specificità, una materia, costituita da ogni elemento reale che compete quel momento storico e quella situazione contingente. L’atto bellico diventa così un sinolo di strategia studiata a tavolino e frizione il cui legame costitutivo non può che essere altro che l’uomo.

Le tesi di Clausewitz, seppur spesso in modo rimaneggiato o parziale, sono state discusse e applicate fino al XX Secolo – perfino da Lenin e Mao Zedong[12]. In tutti questi casi, nonostante gli ampi ammodernamenti delle tecnologie belliche, l’importanza della dimensione umana del conflitto non è mai stata messa in dubbio[13], tuttavia la crescente diffusione di sistemi d’arma completamente autonomi nel movimento – come i droni – con algoritmi decisionali integrati che forniscono tecnicamente la possibilità di riconoscimento, scelta dei bersagli e azione da compiere senza l’intervento di un operatore sembra suggerire la possibilità di un progressivo allontanamento dal ruolo centrale dell’essere umano[14]. Ritengo che Clausewitz risponderebbe negativamente a un’affermazione simile per due motivi: in primo luogo, lato strategico, nessuna I.A., per quanto avanzata, può essere istruita sullo scopo superiore, politico, del conflitto; secondariamente, lato tattico, nessuna I.A. può possedere il coup d’oeil del grande comandante, e che permette di intuire l’imprevedibile; il genio infatti è conscio di un elemento che l’elaboratore ignora: il fog of war, ovvero la costante limitatezza dei dati a propria disposizione e dunque la possibilità costante di ridiscutere le proprie decisioni in base a nuove intuizioni.

Ma c’è un terzo elemento che compete l’automazione dei sistemi d’arma e capace di piegare la teoria di Clausewitz fino al suo limite teorico, ed è rappresentato dall’applicazione delle intelligenze artificiali all’utilizzo delle armi nucleari. In piena guerra fredda Herman Kahn pubblicò un testo esplicitamente allusivo[15] all’opera del prussiano – On Thermonuclear War – che tuttavia descrive realtà e un approccio completamente differenti: Kahn evidenzia come le armi nucleari causino una completa spersonalizzazione dell’evento bellico e in cui le uniche strategie possibili consistono nel prevedere i milioni di morti e immaginarsi come vivrebbero i pochi sopravvissuti ad un conflitto simile[16]. A ben vedere, quando l’I.A. si fonde alla potenza nucleare, emerge concretamente una possibilità che Clausewitz poneva solo per escluderla: la guerra teorica.

Questa legge puramente speculativa, «fantasticheria della deduzione logica» a cui «lo spirito umano difficilmente si adatterebbe in pratica»[17] si è storicamente incarnata nella dottrina militare della Mutual Assured Destruction che ha mantenuto la fragile pace durante la guerra fredda, in cui l’eventuale attacco nucleare da parte di una superpotenza avrebbe comportato una risposta altrettanto devastante dell’altra, rendendola così un’ipotesi suicida. Affinché la controffensiva potesse realizzarsi anche in casi di decapitazione dei comandi governativi e militari si progettarono dei sistemi intelligenti e automatici di risposta, tuttavia, riporre la decisione in un elaboratore prono – come un umano – a errori di valutazione eppure – diversamente da un umano – impossibilitato a rivalutare la propria decisione come possibilmente erronea, rende concretamente ipotizzabili le tre condizioni della guerra teorica clausewitziana ovvero: 1. il totale isolamento dell’evento bellico dalle vicende politiche precedenti, di cui l’elaboratore non è conscio, in cui 2. la sua unica decisione automatica, avulsa dal contesto internazionale, ne determinerebbe l’esito – completamente disastroso per tutti – e che 3. non avrebbe alcuna influenza determinante sulla situazione politica successiva, perché la società post-atomica sarebbe totalmente e improvvisamente differente, a prescindere dall’andamento del conflitto atomico[18].

A oggi non disponiamo di notizie chiare sull’esistenza di sistemi completamente autonomi; è noto che l'URSS rese operativo Perimeter, o The Dead Hand, la cui esatta capacità decisionale è sempre rimasta avvolto nel mistero, ma ci è stato fornito tuttavia un esempio concreto di quanto sia fondamentale mantenere lo human in the loop quando il 26 settembre 1983, nel bunker Serpukov-15, dedicato al rilevamento di minacce nucleari, a fronte di diversi allarmi di cui i calcolatori davano certezza assoluta, il comandante Stanislav Petrov seguì la propria intuizione e considerò, a ragione, gli allarmi un falso positivo.

Concludendo, se per Hegel l’autocoscienza dello Spirito Assoluto culminò nella battaglia di Jena del 1806, in cui la decisiva vittoria di Napoleone aprì le porte ad un’evoluzione “orizzontale” del nuovo Spirito iniziato con la Rivoluzione Francese, possiamo ipotizzare che questa fase terminò il 16 luglio del 1945, con la prima detonazione atomica, dove si gettarono la premesse per un nuovo passo dello Spirito, che oggi non necessariamente transita per la decisione dei popoli ma che necessariamente può determinarne le sorti, o addirittura la fine. Clausewitz rigetta la guerra teorica perché nessun essere umano potrebbe o vorrebbe metterla in pratica, e finora, fortunatamente, ogni possibilità di attuarla è rimasta in persone dotate di giudizio e raziocinio; ma per quanto ciò sarà possibile?

Per il generale prussiano al centro vi è sempre la persona: dal genio del comandante in capo al fondamentale ruolo del popolo. Ed è proprio il peso del popolo che determina l’efficacia di una nazione in guerra, assurgendo ipoteticamente anche alla funzione di impedire azioni che ne metterebbero in evidente pericolo la propria sopravvivenza. Qui entra in gioco il problema dell’automazione nel campo bellico: la guerra fredda dimostra che non è più necessaria la decisione popolare per annientare e/o vedersi annientati. Un ipotetico Hegel odierno dunque dovrebbe raccogliere un interrogativo che Clausewitz pone in nuce: qualora si materializzasse quella guerra teorica, qualora cioè si desse il via al processo bellico costituito da pochi atti immediatamente risolutivi per cui ogni Stato ed ogni assetto politico – o forse ogni uomo – dovesse essere eliminato, che ne sarebbe dello Spirito Assoluto?

 

[1]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Roma; Bari, Laterza, 2003, p. 25.

[2]Ivi, p. 330.

[3]«When fired rapidly, the reports blend together like the clattering of a watchman’s rattle. It can be discharged four hundred times a minute! I liked it very much» Julia Keller, Mr. Gatling’s terrible marvel: the gun that changed everything and the misunderstood genius who invented it, New York, Viking, 2008, p. 12.

[4]Cfr. P. Scharre, Army of none: autonomous weapons and the future of war, First edition., New York ; London, W. W. Norton & Company, 2018, cap. 2.

[5]Cfr. William Bentley, Clausewitz and German Idealism: The Influence of G.W.F. Hegel on «On War», Berlin, BiblioScholar, 2012.

[6]«non siamo né filosofi né grammatici» K. Von Clausewitz, Della guerra, tradotto da A. Bollati ed E. Canevari, Milano, Mondadori, 1970, p. 58.

[7]Cfr. G. E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Torino, Einaudi, 1999, p. 25.

[8]Su questo si gioca il dibattito con il coevo Jomini. Cfr. J. Shy, Jomini, in «Makers of Modern Strategy», a cura di Peter Paret, 143–185, Princeton, Princeton University Press, 1986, p. 144. E anche cfr. G.E. Rusconi, Clausewitz, pp. 300-306.

[9]K. Von Clausewitz, Della guerra, tradotto da Ambrogio Bollati e Emilio Canevari, Milano, Mondadori, 1970, pp. 23-27.

[10]Ivi, pp. 86-87.

[11]Ivi, p. 62.

[12]Cfr. P. Paret, Clausewitz, in Peter Paret (Ed.), Makers of Modern Strategy, p. 211.

[13]In una rilettura del Vom Kriege alla luce del conflitto in Vietnam, Summers ha sostenuto che la sconfitta statunitense sia da imputare alla eccessiva fiducia nei propri mezzi tecnologici rispetto a un avversario ben più politicamente e psicologicamente determinato a combattere una guerra di popolo. Cfr H. G. Summers, On strategy: the Vietnam war in context, Pennsylvania, Strategic Studies Institude, 1981, p. 4.

[14]Cfr. K. Ayoub e K. Payne, Strategy in the Age of Artificial Intelligence, «Journal of Strategic Studies», 39, fasc. 5–6 , 2016, pp. 793–819.

[15]H. Kahn, On Thermonuclear War, New Brunswick, Transaction Publishers, 2007, pp. xi-xii.

[16]Fecero scalpore le tabelle con i milioni di morti, poi rinominati megadeath; singolare inoltre il titolo del secondo capitolo intitolato «Will the Survivors Envy the Dead?», Cfr. ivi, p. 34. Il testo ispirò la cinematografia: nel 1964 uscirono Dr. Strangelove e Fail Safe. In entrambi i casi si ipotizza la catastrofe dovuta a errori tecnici nei sistemi di risposta automatica agli attacchi atomici.

[17]C. Von Clausewitz, Vom Kriege, I, Cap. 1.

[18]«The military rejected the idea of launching without one last human firewall. 'It was complete madness' Yarynich said» D. E. Hoffman, The Dead Hand, New York, Anchor Books, 2009, e-book, Chap. 6.

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