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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

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L’alienazione dell’uomo dal suo fine proprio

Marco Visentin

 

L’immaginario della fabbrica che spreme la vitalità dell’operaio fino a privarlo di ogni possibilità di realizzazione umana ha ceduto oggi il passo alla presentazione dell’impresa, o della grande “corporate” dei Paesi anglofoni, come luogo della realizzazione dell’individuo: il buio ed il grigio della fabbrica otto-novecentesca sono stati sostituiti dallo scintillio dei colori delle imprese e dai riflessi delle vetrate delle sedi delle grandi multinazionali. Il verde della sostenibilità ambientale, il rosa del contributo della donna, i colori delle cravatte dei manager sono ora le immagini più vivide di un nuovo capitalismo che, anche se non è il Paradiso, «è pur sempre il paradiso in terra»[1]. Secondo Marx «l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora, e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato»[2]. Noi, oggi, invece osserviamo che il lavoratore si sente presso di sé solo nel lavoro, è a casa propria solo quando è in azienda, il suo lavoro non è più lavoro forzato ma è entusiastica adesione all’obiettivo dell’impresa. Anche in assenza di una coazione qualsiasi, il lavoro è desiderato come rifugio da quanto è più angosciante nell’esistenza umana e l’uomo si sente libero soltanto quando è in grado di riversare ogni sua energia vitale in un lavoro.

In questo paradiso terreno l’uomo vive un paradosso. Da un lato, i mercati «non giudicano le preferenze che soddisfano»[3], dando l’impressione di una totale apertura dell’arbitrio del singolo individuo. L’uomo appare così libero anche dalla servitù al fine, proprio attraverso l’organizzazione sistematica – tecnologica, razionale – dei fini tecnici ai quali ha deciso di sottomettersi perché li apprezza e crede di controllarli[4]. Dall’altro lato, se il problema del fine dell’uomo non è più un problema etico o religioso – felicità o beatitudine – ma è un problema tecnico scientifico, ogni forma di finalismo che non comprende possibilità di contribuire al meccanismo economico è del tutto relegata all’universo psichico di ciascun individuo come residuo di quell’irrazionalità umana che la società industriale non è, ancora, in grado di eliminare. Ciò determina «forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti a termini di detto universo». Questi obiettivi, a loro volta, non sono fissati autonomamente da ciascuno ma, in modo eteronomo, «sono definiti in un modo nuovo ad opera della razionalità del sistema in atto e della sua estensione quantitativa»[5]. Tutto ciò che sfugge a un criterio di performance o di efficienza, viene sanzionato moralmente come irrazionale.

Secondo Herbert Marcuse, nella nostra civiltà industriale avanzata prevale una «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà»[6], nella quale siamo chiamati a dare il nostro libero consenso a ciò che altri si aspettano da noi. La libertà dell’uomo di individuare autonomamente un fine da raggiungere oggi appare sostituita da una più arida libertà di scegliere fra alternative che vengono presentate, via via e in modo eteronomo, dal mercato, o dalle imprese: l’uomo deve cercare la felicità come soddisfazione dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni. Tuttavia, la soddisfazione dei primi è assicurata dai prodotti e servizi, fra i quali possiamo “liberamente” scegliere, e la seconda dalle possibilità di “realizzare se stessi” offerte dalle imprese. Il fortissimo potere giudicante del mercato è così alla base della trasformazione del comune «desiderio di esistere e di essere riconosciuti come soggetti in sé» nel «bisogno di “realizzarsi” attraverso il lavoro» dimostrandosi «produttivi, efficienti, performanti», capaci cioè di funzionare bene[7]. Parafrasando Marx, oggi l’uomo contemporaneo è perduto a se stesso perché sperimenta una nuova forma di alienazione: l’espropriazione del proprio fine a opera dell’impresa[8].

Dalla celebre figura hegeliana della signoria-servitù abbiamo potuto capire che la coscienza servile si rende oggettiva nel prodotto della propria attività vitale, cioè il lavoro. Posta di fronte a questo “altro da sé”, essa si riconosce in un processo di formazione e di emancipazione, e si libera dal signore. Nel mondo storico appare però subito un’altra coscienza, che si appropria del prodotto del lavoro della prima, e quindi del suo stesso lavoro in un «processo di espropriazione dal punto di vista del lavoro o di appropriazione di lavoro altrui dal punto di vista del capitale»[9]. Tuttavia, a differenza di ciò che vedeva Marx, oggi il lavoro «si presenta come il principale traguardo per la realizzazione personale, un concetto che va oltre la dimensione professionale e include il benessere della parte più intima di sé. La valorizzazione del lavoro fa parte della valorizzazione dell’individuo e della sua ricerca di felicità»[10]. Il lavoro smette così di essere medio dialettico, esso non è più mezzo – per soddisfare i bisogni, per emanciparsi, per realizzarsi – ma diventa il fine. La valorizzazione dell’individuo e la sua ricerca di felicità fanno parte della valorizzazione del lavoro, cioè il lavoro si è trasformato da mezzo a fine dell’esistenza umana. La retorica del “vincente” richiede che l’uomo realizzato sia «colui che ha successo nel suo lavoro: il successo nella vita ne è soltanto la diretta conseguenza»[11]. Il lavoro come fine dell’uomo assorbe entro sé ogni possibile altra determinazione – ivi compresa la felicità aristotelica o la beatitudine scolastica. Così la coscienza espropriata del proprio momento di riconoscimento, viene espropria del proprio fine.

L’uomo storico contemporaneo, secondo la coscienza che ha di sé, non è consapevole di questa espropriazione. Il proprio fine è oggettivato nella sua attività lavorativa perché egli è in quanto fa. Infatti, l’uomo oggi è in quanto sa essere, sa essere in quanto sa fare e il suo saper fare è misurato dal valore del suo fare. Le imprese, che hanno affinato la capacità di mobilitare i lavoratori sui propri, legittimi obiettivi di profitto si presentano sempre più efficacemente «come istituzioni capaci di promuovere valori e punti di riferimento per ogni individuo»[12], ottenendo la totale dedizione dell’uomo al fine di profitto di un ente economico. Come il Vangelo chiamava a lasciare «casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi»[13] per seguire Cristo, così il capitale chiede di lasciare i propri affetti e le proprie origini per seguire l’impresa orientando a essa soltanto interessi, aspirazioni, virtù e speranze. In altri termini, la coscienza dell’uomo storico si aliena mettendo a reddito le proprie caratteristiche essenziali.

La soluzione al problema dell’alienazione non si trova nel rifiuto del lavoro come attività umana qualificante in nome di un ritorno “nichilista” all’uomo delle origini, e nemmeno nella distruzione dell’impresa – o del capitale – come luogo materiale in cui il lavoro si manifesta. I vari tentativi morali o legali di controllare gli effetti del capitalismo, senza mai metterne in discussione la natura di ethos globale, possono soltanto dare una soluzione temporanea, destinata a essere superata dalla sua capacità intrinseca di rigenerarsi nuovamente. Questi limiti sono destinati inevitabilmente a fallire, specialmente in un contesto nel quale non ci sono valori assoluti o assolutamente riconosciuti e laddove i «vecchi» valori vengono via via derubricati a credenze personali in nome di una emancipazione del genere umano che si manifesta sempre e soltanto nella possibilità di disporre liberamente – cioè, di vendere in qualche modo – ciò che non era disponibile secondo quei valori. Si tratta, invece, di riportare il ruolo del mercato – manifestazione metafisica dell’operatività del capitale nel mondo –, e dei soggetti economici che lo animano, in una posizione subordinata rispetto alla capacità di autodeterminazione degli uomini. È necessario, cioè mettere in discussione lavoro e impresa come fini in sé, come elementi costitutivi dell’orizzonte di senso dell’uomo, come unici sostitutivi del suo progetto di vita.

Se, secondo Nietzsche, Dio è morto, è giunto il momento di resuscitarlo.

 

[1] Massimo Borghesi, Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo», Jaka Book, Milano 2021, p. 59.

[2] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, p. 71.

[3] Michael J. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013, p. 21.

[4] Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 229 e ss.

[5] Ivi, p. 26.

[6] Marcuse, L’uomo… cit., p. 15.

[7] Ivi, p. 105; cf.: Miguel Benasayag, Funzionare o Esistere?, Vita & Pensiero, Milano 2019.

[8] Marco Visentin, «Ridotti a star male ma non alla fame, e la rivoluzione non accade». L’alienazione nel mondo economico, Marietti 1820, Bologna 2024.

[9] Marx, Manoscritti…, cit., p. 77.

[10] Michela Marzano, Estensione del dominio della manipolazione dall’azienda alla vita privata, Mondadori, Milano, 2009, p.13.

[11] Marzano, Estensione…, cit., p. 13.

[12] Marzano, Estensione, cit., p. 101.

[13] Mc 10, 29.

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