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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

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Democrazia?

Francesco Compagnoni

 

Di Democrazia mi sono occupato quindici anni fa in occasione del Congresso ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale) a Pietralba (Bolzano).

“L’incerto potere La fragilità del sistema democratico” era il tema preciso. In tale studio mi occupai più di elencare i diritti umani che un governo democratico dovrebbe rispettare ed incrementare che dell’istituto giuridico “Democrazia”. Era il tempo, infatti, dove lavoravo intensamente sui diritti umani.

Tenni conto, senza approfondire, dei problemi definitori dei termini di partenza, ma di fatto presi come modello il discorso che Tucidide pone sulle labbra di Alcibiade, nel lontano sec. V a.C. Splendido esempio di retorica politica ma col difetto di essere bella, ed inservibile, come un bel monumento dopo la festa dell’anniversario dell’eroe. Almeno questa è la mia impressione attuale.

Riprendendo ora il discorso - e con una molta maggior documentazione derivante dall’abbondante e seria produzione nel campo delle scienze politiche riguardanti il destino della democrazia[1] - il primo passo di una riflessione in proposito diventa proprio la definizione, almeno descrittiva, dell’istituzione “democrazia”.

Tralasciando le definizioni classiche, e ben note, di Schumpeter o di Bobbio, potremmo dire che il problema si pone in una forma nuova rispetto a quello della classicità ateniese. Tenendo presente che oggi, seguendo i rilevamenti statistici come quelli di V-Dem[2], gli stati stanno scivolando sempre più verso forme lontane dalle democrazie liberali di stampo occidentali alle quale siamo abituati dal secondo dopoguerra.

Potremmo dire che una democrazia reale deve avere due caratteristiche fondamentali che rendono appunto democratico un governo. Primo: essere il risultato di una consultazione popolare molto larga, e, secondo, avere meccanismi che richiedono agli eletti di rispondere delle loro azioni agli elettori stessi, l’accountability degli anglosassoni.

Attorno a questi due pilastri si possono costruire le teorie, le prassi, i rilevamenti con tema “Democrazia”. Tra l’altro l’ampio processo che la Chiesa Cattolica ha intrapreso, la sinodalità, riveste le stesse caratteristiche.

Riflettendo sul dato di fatto dunque che le democrazie (complete od imperfette) si riducono sempre più di numero nel mondo, arriviamo a dire che oggi rappresentano appena 1/3 dei governi esistenti.

Ma la democrazia non è il fine intermedio di ogni agire politico per giungere ad una società umanisticamente civile? Com’è che tanta gente oggi ne rifugge?

Quali i motivi di tale inversione di fatto e di mentalità?

Difficili da definire data la complessità del fenomeno e la sua ampiezza poliforme.

Io propendo per il fatto che governare è diventato sempre più tecnicamente difficile. Si pensi alla politica monetaria, per indicare uno dei campi più minati. Da qui la tendenza di lasciare ampie aree alle competenze specifiche - di analisi e proposta di soluzioni - e di delegare a politici di professione di individuare i relativi problemi, rimedi, soluzioni.

Aggiungerei anche che la globalizzazione essenzialmente competitiva ci spinge sempre più a voler vedere dei risultati misurabili, e non tanto la realizzazione di modelli astratti di giustizia sociale. Siamo attratti specialmente da tutto ciò che si lascia esprimere in termini di PIL, di efficienza e di easy governance. Vi ha contribuito anche la caduta delle ideologie, che rappresentavano comunque dei modelli morali e non solo materiali. Oggi invece la competitività ci porta a misurare tutto l’humanum solo in termini di produzione di beni e servizi. Ciò che non si lascia misurate è privato, non condivisibile a priori, perché strettamente personale e risultato di scelte non oggettivabili.

Anche i processi di secolarizzazione sono un segno di abbassamento degli ideali sociali collettivi e di una deriva verso un relativismo ideale, riducibile sempre più a criteri di valutazione legati al reddito misurabile e al welfare delle classi superiori, delle élites, al lusso, agli status symbol. Lasciando fuori dall’orizzonte sociale tutto ciò che sappia di ideale, di utopico e quindi poco misurabile. Il tutto poi trasmesso all’infinito ed impacchettato in forme luccicanti dalle comunicazioni sociali, troppo spesso intrecciate con il commerciale.

Passando dal formale al sostanziale, si può ora fare un passo avanti e dire che, la elezione ampia e la accountability, caratteristiche minime ma sostanziali della democrazia, devono a loro volta fare riferimento ad un insieme di principi che potremmo chiamare “Costituzione ideale” che si nutre, giuridicamente, di diritti umani e, moralmente, di legge naturale.

I diritti umani, sia interni allo stato che internazionali che ideali (cioè modelli di comportamento non legali degli individui e delle aggregazioni sociali non statuali), sono abbastanza facilmente individuabili. Tramite i testi pubblici relativi di trattati, accordi, costituzioni statali.

La legge naturale invece è una visione morale legata ad una antropologia e ad una ontologia specifica della filosofia classica prekantiana. E qui interessa in modo particolare perché la struttura dei diritti umani rappresenta in un certo modo i tondini che danno robustezza al cemento e ne fanno del cemento armato.

Al posto di questa teoria fondante dei valori umani, ci può di fatto esserne un’altra, ma con la stessa funzione di rinforzo della “Costituzione ideale” e non della sua storicizzazione estrema e del suo indebolimento.

Resta fermo comunque che la gestione dei diritti umani e della legge naturale, in democrazia, è legata alla tolleranza ed al rispetto reciproco. Infatti senza queste caratteristiche non esiste società umana accettabile anche dalle minoranze; e la pace sociale non è neppure immaginabile.

Senza sottovalutare però il pericolo di slittare verso il relativismo, il quale però, non soddisfa alla lunga nessuna delle parti sociali e genera conflitti di scalata al potere continui.

Nel campo delle scienze politiche e della riflessione etica sociale, è difficile, al di là di pochi principi fondamentali quali la Costituzione ideale e la Legge naturale, anche solo azzardare previsioni sul reale sviluppo storico[3].

Ma ciò che è irrinunciabile è l’impegno teoretico e politico per la realizzazione della giustizia sociale. Senza di questo la vita pubblica diventerebbe solo il campo d’azione dei più forti e dei più spregiudicati e le scienze sociali, teoretiche ed empiriche, perderebbero ogni attrattiva e rilevanza.

 

 

[1] Carlo Galli, Democrazia, ultimo atto?, Einaudi, 2023; Marco Almagisti e Paolo Graziano (cur.), La democrazia. Concetti, attori, istituzioni, Carocci 2024.

[2] https://www.v-dem.net/

[3] Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Utet, 1992. 

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