Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Collaboratori / Contributors

 

Giuseppe Bazzichi
Storico, membro della redazione de La Società, Docente di Filosofia sociale ed etico-economica presso la Facoltà Teologica S. Bonaventura, Roma

Giuseppe Casale
Docente di Storia delle Dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze Sociali, Angelicum, Roma

Massimo Franchi
Dottorando presso la Facoltà di Scienze Sociali, Angelicum, Roma

Edoardo Mattei
Consulente per la Transizione Digitale, Docente di Teoria dei Media Digitali presso l’ISSR dell’Angelicum di Roma

Riccardo Paparusso
Docente di Storia delle filosofica contemporanea presso la Facoltà di Filosofia, Angelicum, Roma

Raffaella Petrini
Francescana FSE, Docente di Economia del Welfare presso la Facoltà di Scienze Sociali, Angelicum, Roma

Alena Rulevich
Dottoranda presso la Facoltà di Scienze Sociali, Angelicum, Roma

Luigi Troiani
Docente di Relazioni internazionali presso la Facoltà di Scienze Sociali, Angelicum, Roma

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1 Il dibattito sul welfare post-socialista

pdfLa letteratura sociologica, economica e di policy analysis che si è specificamente occupata del variegato scenario post-sovietico non di rado si è divisa intorno alla possibilità di decifrare taluni regimi di welfare di detta area come un’evoluzione del modello socialista ovvero, alla luce delle progressive ibridazioni, di assimilarli – sia pure sotto limitati aspetti – alle coordinate vigenti presso i regimi liberaldemocratici. In realtà, la questione in tali termini dibattuta riguarda soprattutto i paesi in cui la transizione politica ha conservato importanti retaggi del passato. In massimo grado, ciò vale per la Bielorussia, che ha mantenuto un cospicuo legame con gli impianti istituzionali (e non solo) del socialismo reale.

La dissoluzione dell’URSS, in effetti, ha generato in molti studiosi una certa perplessità sul potere esplicativo delle classificazioni tipologiche più consuete sui regimi di welfare. Segnatamente, ciò è valso a porre la questione dell’individuazione definitoria di un regime di welfare post-socialista, misurandone la compatibilità con le categorie ricavabili soprattutto dalla celebre tripartizione introdotta da Esping-Andersen (1990) per distinguere, nel campo del welfare capitalism, il regime liberale (pro mercato e poco interventista), quello conservatore (in chiave occupazionale e tendente a cristallizzare le diversità di status socio-economico) e quello socialdemocratico (con estensione universalistica e orientamento egualitario).

Pur nella varietà degli accenti, si sono articolate principalmente tre posizioni interpretative.

La prima consiste nel rifiuto di ricondurre a una categoria omogenea gli indirizzi intrapresi nei paesi un tempo inclusi nella galassia del blocco socialista. Si sarebbe piuttosto trattato di politiche sociali interessate da un graduale processo di trasformazione, avvicinandosi ai regimi prevalentemente tipizzati in letteratura (Deacon, 1993).

La seconda posizione (Morris et alii, 2015) si è segnalata nel sostenere l’ipotesi per cui i sistemi di welfare dei paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) non risultino conformi né ad un presunto regime di welfare state post-socialista, né alla tipologia dei regimi di welfare proposti da Esping-Andersen (1990) con riferimento alle economie capitaliste avanzate. Di qui l’opzione di assumere la definizione di “ibridi unici”, ulteriormente avvalorata dalle trasformazioni incrementali occorse per l’integrazione nelle dinamiche del mercato globale (senza contare i requisiti trasformativi posti alle ex-repubbliche satelliti ai fini dell’integrazione europea).

La terza posizione (Fenger, 2007) ha ritenuto più fondato parlare di un regime di “welfare post-socialista”, spingendosi a precisare l’approdo welfarista in realtà come quella bielorussa nei termini di un “paternalismo statalista” (Götting, 1998), da aggiungere alla menzionata classificazione di Esping-Andersen.

 

2 Il welfare nel modello economico bielorusso

Dopo più di trent’anni la Bielorussia rimane l’unico paese a essere considerato «museo del retaggio sovietico, congelato nel tempo» (Preiherman, 2014, p. 31). Infatti, nonostante il crollo dell’URSS, si caratterizza tuttora per strutture istituzionali e per un impianto di direzione socio-economica in cui le sopravvivenze dirigistiche di stampo socialista risultano alquanto significative.

Il regime politico illiberale (“autoritarismo preventivo” secondo Silitski, 2006) e l’economia centralmente pianificata garantiscono ai cittadini il diritto alla sicurezza sociale in età avanzata, in caso di malattia, invalidità, perdita della capacità lavorativa, perdita del capofamiglia, e in altri casi previsti dalla legge. Per continuare a svolgere il preteso ruolo di custode generoso del benessere del popolo, lo stato ha dovuto mantenere talune modalità gestionali, nell’arena politica e in quella economica, derivate dal precedente regime.

Gli esperti della World Bank (2018) hanno constatato che il percorso di transizione bielorusso sin dal 1991 si è caratterizzato per una lenta apertura dell’economia al settore privato e da una limitata riforma del sistema di governance delle imprese statali. Il dirigismo statalista ha limitato l’interazione nel campo delle politiche sociali di altri soggetti, istituzionali (inclusi quelli ecclesiastici e internazionali) o imprenditoriali che siano. I principali attori della politica sociale a livello macro sono oggi il Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale e il Ministero dell’Economia. La maggior parte delle misure di protezione sociale e di sostegno è organizzata, attuata e monitorata dal Fondo di Protezione sociale del primo dei due dicasteri. Tuttavia, le normative vigenti in materia non sono pienamente sistematizzate e coerenti. Manca soprattutto una cornice legislativa di indirizzo generale per le diverse ramificazioni attuative (Erofeeva, 2011).

La politica sociale della Bielorussia sta diventando sempre più diversificata. Se all’inizio degli anni ’90 era limitata principalmente a promuovere l’aumento del reddito della popolazione e la riduzione dell’inflazione, oggi il bilancio dello stato riserva importi considerevoli alle esigenze sociali. In particolare, secondo i dati del Ministero delle Finanze, nel 2020 il 47,9% del bilancio consolidato della Bielorussia ha finanziato le politiche sociali, il 16,4% del quale destinato all’assistenza sanitaria e il 16,4% all’istruzione.

Il compito più complesso della riforma dei meccanismi di attuazione della politica sociale è combinare le esigenze di giustizia sociale con i criteri dell’efficienza economica. Dall’inizio del 2000, con risorse finanziarie insufficienti, il governo bielorusso mostra la tendenza a riservare preferenzialmente i trasferimenti diretti alle famiglie con minorenni e ai cittadini disabili con basso reddito, limitando i benefici assistenziali ai soggetti emancipati e abili al lavoro. Secondo la sociologa Morova (2012), tale tendenza potrebbe aprire il passaggio graduale della Bielorussia da un modello paternalistico ad un modello più efficace di corresponsabilizzazione tra stato e cittadini informata alla logica della sussidiarietà, o “welfare della responsabilità”. Nonostante ciò, la necessità di ulteriori riforme del welfare è diventata particolarmente evidente negli anni 2015-2016, quando il Paese ha dovuto affrontare una seconda crisi economica nell’arco di soli cinque anni (Bertelsmann Stiftung, 2018).

 

3 Il welfare bielorusso negli ultimi anni

Stimolato dalla sfida, il regime ha elaborato un programma di significativo rinnovamento del settore.

Le caratteristiche del nuovo modello bielorusso sono state descritte per la prima volta nella Strategia nazionale per lo Sviluppo socio-economico sostenibile fino al 2020. In tale documento si è posta l’enfasi sull’accessibilità gratuita e universale ai servizi di base, con l’individuazione di standard qualitativi minimi, secondo un metodo invero da tempo invalso nelle legislazioni occidentali. Al contempo si è espressa l’esigenza di redistribuire efficacemente la spesa dello stato a favore delle categorie più vulnerabili e a basso reddito, intervenendo specularmente sulle opportunità occupazionali dei cittadini stimolandone l’intraprendenza.

Secondo i calcoli del centro di ricerca BEROC, nei primi tre trimestri del 2020, il 24,1% del PIL è stato speso per bisogni sociali: istruzione, assistenza sanitaria, sostegno sociale, pensioni e sussidi.

Per lungo tempo il sistema pensionistico bielorusso non ha subito modifiche di sostanza rispetto alla sua versione sovietica. Solo nel 2016 è stato emanato il decreto n. 137 “Sul miglioramento del Fondo pensionistico”, la cui attuazione, secondo le previsioni degli esperti, consentirà di mantenere l’attuale livello della spesa pensionistica almeno per i prossimi 5-8 anni. Sulla base del decreto, a partire dal 1° gennaio 2017 l’età minima per le pensioni di vecchiaia ha iniziato a innalzarsi di sei mesi l’anno, portandosi già nel 2022 da 55 a 58 anni per le donne e da 60 a 63 anni per gli uomini. Ai sensi del decreto n. 534 del 31 dicembre 2015, anche l’anzianità minima di servizio richiesta per il pensionamento si assoggetta a innalzamento progressivo su base semestrale: al momento è di 15 anni ed entro il 2025 raggiungerà i 20. Tuttavia, sebbene si preveda il passaggio graduale del sistema pensionistico a un formato cumulativo (Bornukova, Lvovskij, 2020), è possibile che, per la lentezza della transizione, il governo si troverà costretto a innalzare ulteriormente l’età pensionabile.

L’ambito delle politiche per la famiglia è regolato attraverso una serie di atti normativi, il più importante dei quali è il decreto presidenziale n. 46 del 21 gennaio 1998 “Sull’Approvazione delle direzioni principali della politica statale familiare della Repubblica di Bielorussia”. Il decreto n. 28 del Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2021 ha approvato il programma statale “Salute pubblica e sicurezza demografica” per il 2021-2025. Esso dovrebbe contribuire a soddisfare i valori stabiliti per gli indicatori nazionali altresì funzionali al perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
La Bielorussia è stata anche il primo paese tra i membri della CSI ad adottare misure normative per fronteggiare la crisi demografica, elaborando, a partire dal 2006, programmi quinquennali ad hoc. All’inizio del 2019 in Bielorussia vi erano oltre 2,7 milioni di famiglie di cui 1,2 milioni con figli minori. Questa parte della popolazione rappresenta il destinatario principale delle politiche in tema, con undici tipi di assegno, come quello di maternità, al nucleo familiare, di invalidità temporanea e per la cura della prole. Al che si aggiunge un sussidio forfettario alla nascita. Oggi l’importo di questi ultimi ammonta a 2.732,70 byn (906,40 euro) per il primo figlio e a 3.825,78 byn (1.268,96 euro) dal secondo figlio in poi. Più in generale, nel 2020 2,4 miliardi byn (1,6% del PIL) sono stati destinati al sistema delle prestazioni per le famiglie con bambini (Mintrud, 2021).

Un altro strumento di sostegno alle famiglie è rappresentato dal servizio di baby sitting gratuito per i nuclei con figli gemelli di età inferiore ai 3 anni (20 ore settimanali in caso di due gemelli, 40 ore oltre i due). Le norme prevedono il congedo di maternità triennale per il figlio di età inferiore ai 3 anni, con un sussidio stabile per l’intero periodo, che riguarda oltre 300mila beneficiari. Il congedo può essere concesso al padre lavoratore o ad altri parenti se la madre riprende a lavorare ovvero a studiare. Infine, il 28 gennaio 2020 sono entrati in vigore gli emendamenti al Codice del Lavoro, che hanno introdotto per i padri (naturali o adottivi) il diritto ad un congedo di due settimane alla nascita (o all’adozione) del bambino: secondo l’articolo 186, il datore di lavoro è obbligato a concedere su richiesta un congedo senza retribuzione non superiore a 14 giorni. A livello governativo è sorto un dibattito sulla necessità di ridurre il congedo parentale da tre a due anni, mantenendo il triennio solo per le famiglie numerose, ma al momento la disciplina non ha subito modifiche, lasciando aperta sul tavolo l’opzione di mantenere il congedo di tre anni retribuito per i primi due. Per il quinquennio 2020-2025 si è stabilito lo sviluppo di una rete di asili-nido privati, con una parziale compensazione dei costi da parte dello stato.

Sempre per stimolare le nascite, Lukashenka ha firmato il decreto n. 171 per il “Sostegno sociale per alcune categorie di cittadini”. Secondo il documento, dal 1° gennaio 2021 le coppie in cui la donna abbia un’età inferiore ai 40 anni hanno il diritto ad un tentativo di fecondazione in vitro finanziato dal sistema sanitario pubblico, se vi sono indicazioni mediche favorevoli.

Dal 2015 il complesso degli strumenti di sostegno alle famiglie numerose è stato rafforzato con l’introduzione del cosiddetto “capitale familiare”, ossia la concessione alla famiglia di una somma di denaro pari a 10 mila dollari, versata sul conto bancario a partire dal terzo figlio (nato o adottato), tuttavia disponibile con la sua maggiore età e vincolata, nell’uso, all’obiettivo esclusivo di favorire il miglioramento delle condizioni abitative, educative, in alternativa spendibile come assegno pensionistico per la madre. L’utilizzo anticipato è ammesso solamente ai fini dell’assistenza medica. Il programma è stato attivo per 5 anni e si è concluso il 31 dicembre 2019 e il riscontro della sua efficacia ha indotto il governo bielorusso a prorogarlo per altri cinque anni. Dal 1° gennaio 2020, il capitale familiare è fissato a 22.500 byn e viene assegnato alla nascita (o adozione) tra il 1° gennaio 2020 e il 31 dicembre 2024 di un terzo (o successivo) figlio. A partire dal gennaio 2021, l’importo del capitale familiare sarà indicizzato annualmente sulla base del valore dei prezzi al consumo dell’anno precedente, al fine di preservarne il potere d’acquisto dalla crescita inflattiva (Mintrud, 2019).

Alle politiche familiari sono direttamente legate quelle del lavoro. Le famiglie con tre o più figli hanno diritto a un giorno di riposo supplementare alla settimana, pagato nella misura del salario medio giornaliero. Dal 28 gennaio 2020 è entrata in vigore la legge n. 219 del 18 luglio 2019, che modifica il Codice del Lavoro. In particolare, essa introduce un nuovo capitolo, che riconosce e disciplina il lavoro a distanza, per consentire una migliore conciliazione con le responsabilità familiari.

Altro ambito rilevante delle politiche sociali ricade nel settore dell’occupazione. Secondo la raccolta statistica La Bielorussia e i Paesi del mondo (Belstat, 2018), la società nazionale vede diminuire la propria forza lavoro. Secondo calcoli basati sulle previsioni dell’Istituto nazionale di Ricerca economica del Ministero dell’Economia, dal 2019 al 2023 la manodopera diminuirà dell’1,2%. Secondo i dati Belstat, il tasso di disoccupazione nel quarto trimestre del 2020 corrispondeva a 4,1%, ma resta difficile misurare il tasso effettivo, poiché le statistiche ufficiali si basano prevalentemente su indagini a campione.

Sul piano normativo il sistema di protezione sociale dei disoccupati in Bielorussia include gli istituti tipici dei regimi di welfare dell’Europa continentale, ossia l’assicurazione sociale, la previdenza sociale e l’assistenza sociale. Tuttavia, soltanto i disoccupati ufficialmente registrati possono usufruirne e, dato l’esiguo ammontare dell’indennità prevista, in molti rifiutano di formalizzare il proprio status non lavorativo presso il ministero, per eludere i controlli che altrimenti limiterebbero la possibilità di cercare fonti di reddito in occupazioni occasionali e comunque senza copertura contrattuale.

Il 2 aprile 2015 è stato firmato il decreto n. 3 che ha introdotto la cosiddetta “imposta sul parassitismo”, foriera di risonanza anche estera: un tributo obbligatorio annuale, equivalente a circa 200 euro, da parte di cittadini che, in quanto non occupati, non contribuiscono al finanziamento della spesa pubblica. L’iniziativa ha sollevato molte critiche e indignazione, risultando lesiva della dignità di cittadini resi oggetto di riprovazione sociale e materialmente puniti per le situazioni di indigenza anche non volontariamente patite. Il tutto senza un efficace impegno da parte dello stato per alleviare il livello di disoccupazione, soprattutto, nelle piccole città e nei villaggi, o almeno la disponibilità del legislatore a riconoscere l’oggettiva difficoltà nel trovare lavoro affrontata dalle madri di bambini piccoli e dalle persone con disabilità. A causa delle reazioni registrate, il 27 gennaio 2018 è entrato in vigore il decreto n. 1 “Sulla promozione dell’occupazione”, che ha sostituito l’imposta con il pagamento al 100% dei servizi pubblici o comunque sovvenzionati dallo stato. Tuttavia, dato che il paese sta progressivamente abbandonando la pratica del sovvenzionamento incrociato di molti servizi sociali, ci si può aspettare presto l’introduzione di nuove misure nella lotta contro il “parassitismo sociale”.

L’istruzione gratuita è garantita dalla costituzione, quantunque, nella realtà degli ultimi anni, si rendono sempre più necessari esborsi finanziari supplementari da parte delle famiglie per garantire ai loro figli un servizio di alta qualità.
La spesa pubblica per la ricerca è ben al di sotto della media mondiale ed è una delle più basse d’Europa. Il 2015 ha registrato una significativa riduzione della quota di spesa nazionale riservata a tale voce, pari allo 0,17% (0,52% del PIL), la più bassa della storia bielorussa post-sovietica (Bertelsmann Stiftung, 2018). Gli istituti di ricerca stanno perdendo ricercatori e specialisti, a causa dei bassi salari e della libertà professionale limitata. La Bielorussia si colloca solo al 64° posto su 131 Paesi nel

Global Innovation Index 2020 dell’INSEAD mentre nel 2020 non compare affatto nella classifica del Bloomberg Innovation Index.

Riguardo alle politiche legate alla tutela dell’ambiente, lo stato bielorusso continua a dare priorità allo sviluppo economico trascurando le minacce dell’inquinamento radioattivo e chimico, questione che rimane particolarmente importante per la popolazione bielorussa dopo il disastro di Chernobyl. La decisione di costruire la centrale nucleare di Ostrovets è indicativa. Tuttavia, nel 2016 la Bielorussia ha adottato un piano d’azione per il periodo 2016-2020, al fine di attuare le raccomandazioni della Environmental Performance Review dell’UNECE, che ha evidenziato una serie di risultati positivi, quali la diminuzione dell’inquinamento atmosferico dalle fonti mobili, il progresso nell’integrazione dell’educazione allo sviluppo sostenibile, nonché il miglioramento della legislazione ambientale.

Per quanto riguarda le politiche della salute in Bielorussia, la pandemia di COVID-19 ha contribuito a dimostrare che, dietro le cifre e gli indici ufficiali, il sistema sanitario risulta poco flessibile alle esigenze sociali. Secondo gli analisti dell’impresa bielorussa Satio e della fondazione tedesca Friedrich Ebert (2020), l’emergenza epidemiologica ha evidenziato carenze che si radicano nella struttura del servizio pubblico ma che, soprattutto, hanno a che vedere con la logica decisionale complessiva con cui si assume la funzione sanitaria in relazione alle strategie sistemiche del regime.

Secondo la classifica del livello di severità delle misure nazionali di contrasto alla pandemia ricavata dalla banca dati COVID-19 Government Response Tracker della Blavatnik (OxCGRT, 2020-2022), tra l’inizio del 2020 ai primi di febbraio 2021, la Bielorussia, al pari di alcuni governi africani, del Nicaragua e di Taiwan, ha adottato provvedimenti restrittivi e preventivi di sanità pubblica tra i più blandi. In effetti, dall’inizio della crisi non mai stato deciso un lockdown completo. Luoghi di lavoro e di aggregazione sociale, attività a siti commerciali sono generalmente rimasti aperti. Gli eventi culturali e sportivi si sono svolti senza speciali restrizioni, il tutto giustificato dalla priorità, espressamente dichiarata dalle autorità governative, di non sacrificare l’economia nazionale.

 

Conclusioni

L’economista bielorusso Yuri Krivorotko (2018), avendo analizzato l’andamento della spesa sociale nazionale nel periodo tra il 2010 e il 2017, ritiene che il paese sia ancora lontano dagli standard europei di qualità nelle prestazioni di welfare. Di fatto, la sicurezza sociale in Bielorussia è una combinazione di ampie coperture ma con opportunità di finanziamento pubblico relativamente modeste. Soprattutto negli ultimi anni, in un contesto di rallentamento della crescita economica, di aumento dell’inflazione e dei prezzi di prodotti e servizi di base, lo stato sociale bielorusso ha iniziato a rivelarsi meno efficiente che in passato.

Rispetto al welfare della Bielorussia si possono raccogliere pareri discordanti, in un insieme di valutazioni che vedono contrapporsi stime favorevoli e considerazioni critiche, quest’ultime spesso inclini a riconoscere nel deficit democratico del regime politico un elemento di debolezza originaria. Quantomeno, nella misura in cui la carenza di pluralismo si riverbera nella mancanza di stimoli e di confronto con l’espressione delle effettive esigenze esprimibili dagli attori sociali (Bondar, 2020). Al che si aggiungono le condizioni di instabilità economica, con un rischio permanente di riduzione della spesa del budget nazionale. Ma a pesare sono anche molteplici sfide sociali, soprattutto demografiche, causate dall’alto tasso di popolazione anziana, a fronte dell’aumento graduale del numero dei servizi a pagamento in un contesto di domanda crescente. Nel complesso, un quadro cui i più recenti indirizzi di riforma tentano di porre rimedio orientandosi, almeno parzialmente, verso l’adozione di logiche preventive (Kovalkin et alii, 2014) nei confronti della vulnerabilità.

Poiché il problema del finanziamento della spesa sociale rimane centrale, il coinvolgimento del mercato e del terzo settore potrebbe rappresentare un percorso di rilancio e di sviluppo efficace. L’altra direzione verso su cui occorre investire, approfondendo le innovazioni paradigmatiche più recenti, consiste nell’acquisire idonei strumenti di valutazione dell’impatto sociale dei programmi di intervento. Infine, la sequenza tra la pandemia e la crisi apertasi con la guerra in Ucraina impone come urgente la necessità di ristabilire al più presto rapporti distesi e cooperativi in campo internazionale, in considerazione della multidimensionalità dei fattori che concorrono a determinare le criticità sistemiche nell’epoca delle interdipendenze globali, le quali rendono sempre più inadatte le opzioni isolazionistiche votate a una mera logica assistenziale in cambio di consenso e acquiescenza.

 

Alena Rulevich

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici


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ISSN 1720-1691

Anno 21o         Numero 2       Giugno 2022


Indice

Editoriale / Editoria

Giuseppe Casale Welfare, maschera e volto dei regimi politici

Studi / Contributions:

Politica e welfare in Bielorussia: oltre il Covid-19

Luigi Troiani Ma che welfare c’era in Unione Sovietica?
Giuseppe Casale State-(re)building e sviluppo umano nella transizione post-sovietica
Riccardo Paparusso La natura post-totalitaria del regime politico in Bielorussia
Alena Rulevich Il welfare state bielorusso: modello e sviluppi
Raffaella Petrini Welfare e politiche sanitarie in Bielorussia

 

Spazio Aperto / Open Space

Massimo Franchi La responsabilità sociale d’impresa tra moda ed etica
 Edoardo Mattei Great Resignation e la società post-Covid
Giuseppe Bazzichi Trentesimo della rivista “La Società”

Una Pagina Classica / A Classical Text

Francisco de Vitoria Per la vittoria in una guerra giusta si può usare qualsiasi mezzo, se proprio necessario

Collaboratori / Contributors

classica

 

Nota editoriale:

Una buona esposizione globale della posizione del De Vitoria sulla guerra è quella facilmente accessibile di Giuseppe Tosi
https://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tosi.htm

Mentre la traduzione e il commento di Carlo Galli resta un classico:
F. de Vitoria: De Jure Belli, Laterza 2005.

 

pdfDe Vitoria tiene lezioni sulla Carità (si noti bene: non sulla Giustizia!) nel 1534 a Salamanca. In quel periodo Carlo V combatte su tutti i fronti europei e mediterranei.
I suoi studenti e segretari prendono note e queste saranno pubblicate dopo la sua morte.

Il breve testo, estrapolato da F. Compagnoni, costituisce il suo commento a:
Summa Theologiae di Tommaso d’A., II-II q. 40, art 1: Se fare la guerra sia sempre peccato.
L’originale latino qui tradotto si trova in:
Comentarios a la secunda secundae de santo Tomás / Francisco de Vitoria; edición preparada por el p. Vicente Beltrán de Heredia. Convento de Santo Esteban, Salamanca.
Vol. 2: De caritate et prudentia (qq. 23-56). 1932.

Si ponga attenzione ai soli quesiti n. 11. 12. È evidente la posizione di transizione dagli usi guerreschi medievali agli inizi del diritto umanitario in bello.
Riassumendo il pensiero dell’autore: quando la guerra è giusta, lo scopo giusto è la vittoria. Si possono uccidere quindi i nemici pericolosi e, a certe condizioni, anche i civili inermi, per raggiungerla. Per la vittoria si possono anche concedere pratiche (allora molto praticate…) come il saccheggio e distruzione delle città, se senza di esse non si può raggiungere la vittoria, sempre legittima perché perseguita in una guerra giusta.

Per il contesto militare (ad es. come erano impiegati e pagati i soldati, le loro rivolte, ecc,) si vedano gli scritti molto documentati (anche sui dibattiti teoretici dell’epoca) di Geoffrey Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, Il Mulino, 2014; L’imperatore, vita di Carlo V, Hoepli 2021; Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Il Mulino 2005.

 

***

 

Francisco de Vitoria (1483-1546)

Per la vittoria in una guerra giusta si può usare qualsiasi mezzo, se proprio necessario

[…]

9. Ci si chiede se sia lecito uccidere durante la guerra. Rispondo che, se è necessario alla vittoria, lo è, come lo è uccidere certi uomini che perturbano la società (rempublicam)

10. Un dubbio: Supponiamo che gli spagnoli vincano e non siano minacciati da pericoli ma i nemici fuggano. È lecito inseguirli ed ucciderli, mentre ormai la loro morte non è necessaria alla vittoria?
Rispondo che è assolutamente lecito ucciderli. Il motivo è il re ha il potere di uccidere non solo per recuperare beni ma anche di punire i nemici, dopo che [i propri soldati] sono entrarti nella città. Come il re può uccidere alcuni cittadini che hanno incendiato la città e non solo confiscare i loro beni.
Questo è evidente, perché se non si potessero uccidere, non si potrebbero evitare le guerre, perché subito dopo lo rifarebbero [incendiare]. Secondo. Affermo che non sarebbe lecito uccidere tutti i nemici, ma bisogna essere moderati (adibendus est modus). Come il re non può punire tutti i cittadini di questa città, che si sono ribellati contro di lui, ma può ucciderne alcuni.
[… seguono alcune distinzioni in favore della non uccisione]

11. Si pone la questione se in quella guerra si possano uccidere i bambini. Io ne ho discusso con qualcuno del Consiglio del Re [Carlo V]. Lui sosteneva che va considerato la possibilità di uccidere tutti al fine di avere buone guerre (bona bella)
Io affermo: Primo. Tutti coloro che possono portare armi sono da ritenersi pericolosi, perché si presuppone che difendano il re nostro nemico. È lecito ucciderli, almeno che non consti il contrario, cioè che non sono pericolosi. Secondo. Che quando è necessario uccidere degli innocenti per avere la vittoria, questo è lecito. Come quando per conquistare una città è necessario cannoneggiarla [bombardearla, in spagnolo nell’originale latino]. Da questo segue che consegua la morte di innocenti, ma questo è per accidens. Non c’è nessun dubbio su questo, come quando si espugna un castello. Terzo. Quando una città è stata conquistata, e questi innocenti non mettessero in pericolo la vittoria, allora non è lecito al re uccidere tali innocenti, come sono i bambini, i religiosi e i chierici che non aiutano contro di lui. La ragione è chiara: costoro sono innocenti e nè è necessario ucciderli per conseguire la vittoria. È eretico dire che vanno uccisi comunque. E non si può uccidere intenzionalmente gli innocenti se è possibile distinguerli da altre persone pericolose.

12. Ci si chiede se durante una guerra giusta sia lecito concedere che una città sia saccheggiata, distrutta e passata a fil di spada (dare in praedam civitatem, in direptione ed in gladium). Sembrerebbe di sì, perché non si potrebbe conquistarla diversamente. In tal modo i (nostri) soldati combattono con più impegno e i nemici hanno più paura. Questo è necessario per acquisire la vittoria.
In contrario: ne segue però la morte di innocenti, per cui non è lecito.

Rispondo che se questo non è necessario alla fine della guerra, coloro che permettono questo peccano gravemente. Secondo. Dico che se questo è necessario, i comandanti possono concederlo, ma i soldati non posso farlo di propria iniziativa. I comandanti possono permettere il saccheggio delle città nelle guerre contro i mori [cioè i mussulmani e i turchi]. Non perché sono mori, ma perché occupano nostre proprietà e la guerra è giusta. Questo sarebbe lecito anche tra cristiani. Terzo. I comandanti debbono esortare i propri soldati a non uccidere gli innocenti. Ma anche se sapessero che i propri soldati produrranno molti mali, possono comunque permetterlo (bene tamen possunt hoc permittere).

[…]

 

***

bazzichi

 

Il testo riprende parte del contributo di Oreste Bazzichi che apparirà sul n. 3/2021 della rivista La Società.

Esprimiamo in tal modo la nostra vicinanza ideale alla rivista La Società, e al movimento legato al tale pubblicazione, che perseguono scopi e strategie sociali idealmente vicine a quelle di OIKONOMIA.

 

 

1 . Nascita della rivista “La Società”

pdfAlle origini e al percorso scientifico e culturale che la rivista ha compiuto nei primi quindici anni della sua storia e ad alcune riflessioni sull’identità che essa nel tempo ha acquistato, il Comitato di redazione dedicò un inserto specifico nel n. 6 (novembre – dicembre 2006), dove, oltre ad una nota, fu riprodotta anche la prima copertina e il primo saggio di Mons. Mario Toso sulla “Fecondità pastorale della dottrina sociale della Chiesa”, a cui rimandiamo1.

Ritorniamo sull’evento non tanto per evidenziare il cammino fatto e il prestigio acquisito, quanto piuttosto per annotare la fase di inizio della rivista – il 1991 appunto -, anno caratterizzato da tanti segni convergenti, ma tutti legati alla ripresa di interesse per la dottrina sociale della Chiesa (d’ora in poi, DSC).

E non è senza significato il fatto che il momento della sua progettazione portasse l’impronta e l’espressione del mondo laico cattolico (con i suggerimenti della Conferenza Episcopale Triveneta), allo scopo di “ripensare in forme adeguate ai tempi – come scrive il Direttore Stefano Fontana nel suo primo editoriale, oggi Direttore dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan – il rapporto tra la fede e la vita, una nuova inculturazione della fede capace di affrontare il nuovo”.

Il cuore de “La Società” nasce, dunque, con un forte impegno culturale, proiettato sull’azione sociale; per questo, “il valore della dottrina sociale della Chiesa” va “riscoperto, riproposto, ripensato e riattualizzato”.

Sotto questa prospettiva, fin dall’inizio, essa presentava aspetti finalizzati a studiare, elaborare, approfondire e diffondere il “nesso profondo tra dottrina sociale della Chiesa ed evangelizzazione”. La caratteristica di rivista-studio e rivista-dibattito-informazione rispecchiava il frutto dell’evoluzione e maturazione del Centro Culturale della Fondazione Giuseppe Toniolo di Verona, fortemente sostenuto dal Vescovo, Mons. Flavio Roberto Carraro. Il presule veronese, infatti, per garantire una maggiore efficacia a servizio dell’azione culturale della Chiesa italiana, intese evidenziare l’attività della Fondazione Toniolo rendendola soggetto qualificato anche dal punto di vista giuridico e strutturale. L’idea di irrobustire il cammino della rivista su entrambi i campi, indusse la nuova linea editoriale, diretta da Claudio Gentili a partire dal n. 6/2002, ad introdurre un processo di specializzazione disciplinare sulle problematiche socio-politico-economico-culturali emergenti, stimolando contributi provenienti da una rete sempre più ampia di collaborazioni da parte di studiosi italiani e stranieri. In altre parole: ottenere una rivista scientifica, interdisciplinare, progettuale, rivolta non solo agli specialisti, ma a tutti, sacerdoti e laici, operatori di pastorale, studenti dei seminari, delle università, degli studentati teologici e delle scuole superiori, agli insegnanti e ai frequentanti le molteplici scuole di formazione all’impegno socio-politico, alle parrocchie e ai gruppi giovanili, ai religiosi e religiose, ai movimenti e alle associazioni impegnate nella rappresentanza delle categorie sociali.

Tra le motivazioni della necessità di avere una rivista specifica di questo profilo ve ne fu una incontrovertibile, che rimandava ad alcune affermazioni di Don Luigi Sturzo.

Abbiamo in Italia una triste eredità del passato prossimo, e anche in parte del passato remoto, che è finita per essere catena al piede della nostra economia, lo statalismo economico inintelligente e sciupone, assediato da parassiti furbi e intraprendenti, e applaudito da quei sindacalisti senza criterio, che credono che il tesoro dello Stato sia come la botte di san Gerlando dove il vino non finiva mai.

E ancora.

Lo statalismo non risolve mai i problemi economici e per di più impoverisce le risorse nazionali, non solo nella vita materiale e degli affari, ma anche nella vita dello spirito.


Infine.

Finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gli italiani saranno liberi 2.

Certamente Don Sturzo aveva visto bene: i rapporti tra mondo cattolico e mondo dell’economia per decenni non è corsa tanta simpatia. Ma ad iniziare dalla metà degli anni Ottanta, si è cominciato a notare un certo interesse sui temi del sociale e dell’impresa, che ebbero una significativa verifica al convegno ecclesiale sul tema: “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini” (Loreto, 9-13 aprile 1985. Ricordiamo che erano prevalenti, allora, le preoccupazioni per la disoccupazione per lo più derivata dall’innovazione tecnologica. Al convegno furono presentati due documenti interessanti, che in qualche modo influenzeranno la DSC e nell’immediato la Centesimus annus, prima enciclica che riconosce il ruolo positivo del mercato, dell’impresa e dell’imprenditore. Il Papa, proponendo una rilettura della Rerum novarum, osservava come da allora iniziò per la Chiesa un processo di riflessione, grazie al quale, nella scia della tradizione risalente al Vangelo, si andò formando quell'insieme di princìpi che prese poi il nome di “dottrina sociale”. Ci si rese conto, in fondo, che è dall'annuncio del Vangelo che scaturiscono la luce e la forza per l'ordinamento della vita della società. Dopo il crollo del sistema del socialismo reale, la Chiesa e l'umanità si trovavano davanti a gigantesche sfide. Il mondo non era più spaccato in due blocchi nemici, tuttavia permanevano fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati. Intere popolazioni vivono in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti paesi eliminava certamente un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non bastava a risolverli. C’era anzi il rischio che si diffondesse un'ideologia radicale di tipo capitalistico, come poi la crisi economico-finanziaria del 2008 ha dimostrato. L’enciclica afferma la disponibilità della Chiesa a svolgere il suo ruolo di “esperta in umanità”, offrendo non solo la sua dottrina sociale e, in generale, il suo insegnamento circa la persona redenta in Cristo, ma anche il concreto suo impegno e aiuto per combattere l'emarginazione e la sofferenza, nella piena consapevolezza che il messaggio sociale del Vangelo non è né deve considerarsi una teoria, ma un fondamento e una motivazione per l'azione.

Il primo documento, dal titolo L’imprenditore tra problemi economici e messaggio cristiano, fu messo a punto, nel marzo 1985, da un gruppo di economisti, imprenditori, sociologi e teologi, tra cui Andreatta, Romano Prodi, Glisenti, Sorge, Reina ed altri3.

L’altro, L’etica della solidarietà dinanzi alla sfida del cambiamento (4 aprile 1985), sottoscritto da Lazzati, Lombardini, Merli Brandini ed altri4.

I due documenti vennero discussi al Convegno ecclesiale, nel corso delle riunioni della Commissione 22, presieduta da M. Brutti sul tema “L’economia: efficienza e solidarietà”, dell’ambito e, che aveva per tema “La Chiesa e il paese in un campo di riconciliazione”.

Il primo documento considerava le ragioni dell’impresa, muovendosi in un’ottica “liberale”. Qualora l’azienda non riuscisse più a raggiungere il suo fine, sia perché non potesse più produrre, sia perché la sua produzione non risultava più economica, veniva a cessare la sua stessa ragione d’essere.

Nel secondo documento prevaleva un profilo più “sociale” con la sfiducia nei meccanismi di mercato, particolarmente sottolineata da Siro Lombardini, che chiedeva più solidarietà in economia. Pertanto, questi due documenti presenti e discussi nel corso dei lavori al convegno ecclesiale di Loreto, rappresentano una svolta nella DSC: sul versante produttivo, pur non tralasciando il sistema distributivo. Ad avvalorare tale profilo, intervengono altri due documenti.

Il primo, dal titolo A cinque anni dalla “Laborem exercens”, fu messo a punto nel novembre 1986 da Luigi Abete, Giancarlo Lombardi, Vittorio Merloni, sindacalisti della CISL ed altri. Esso si muoveva nell’ottica della solidarietà e dell’interclassismo, attutendo i toni e le polemiche ricorrenti tra mondo dell’economia e del sociale5. Il secondo, dal titolo Etica ed economia in un’epoca in trasformazione. Riflessioni sul versante dell’impresa, fu messo a punto da Felice Mortilllaro, Angelo Ferro ed altri6. Il testo rispecchia soprattutto il pensiero di Felice Mortillaro, che è stato un protagonista delle relazioni industriali in Italia negli anni caldi del conflitto sindacale e nella fase successiva in cui l'impresa privata riuscì a recuperare terreno rispetto al "contropotere" esercitato dagli organismi di rappresentanza dei lavoratori. Egli usava definirsi "Sindacalista d'impresa", ma nel documento emergono le idee e le ragioni dell'economia di mercato, dell'efficienza e della responsabilità individuale contro la diffusa mentalità assistenzialista. In quanto liberal-conservatore nel solco della tradizione di Prezzolini, il suo pensiero torna d'attualità in un'epoca in cui il liberalismo è posto sotto accusa in quanto sbrigativamente assimilato alla finanziarizzazione dell'economia e al capitalismo sregolato, ma nessuno, al momento, è in grado di proporre una valida e credibile alternativa “all’economia di mercato, all’economia d’impresa, all’economia libera” (Centesimus annus, n.42).

 

2 . Etica ed economia

In Italia, già prima di “tangentopoli” (fenomeno sorto, o meglio, scoperto, per intendere e definire da parte dei mass media, con una parola il “perverso” rapporto tra politica ed affari), negli ambienti alto-imprenditoriali – rappresentati da Confindustria (imprese private), Asap (imprese pubbliche del gruppo ENI) e Intersind (imprese pubbliche del gruppo IRI, entrambe poi confluite a metà degli anni ’90 nella rappresentanza di Confindustria), accanto a studiosi di economia, teologi e sindacalisti – si era diffusa l’idea che fare impresa esigesse non solo un’organizzazione efficiente e competitiva per affrontare la crudezza del mercato, divenuto intanto globale, ma anche riscoprire le ragioni etiche che devono animare e orientare l’economia nei suoi obiettivi di scienza non solo nel procurare il benessere materiale, ma anche nel favorire lo sviluppo “integrale” dell’uomo e di tutti gli uomini. Su questa linea, a fianco e in aggiunta ai documenti citati nel paragrafo precedente, si svolsero numerosi incontri e convegni, che coinvolsero gli ambienti cattolici, Università e Conferenze episcopali7. A questo punto si poteva constatare che la riflessione sull’etica economica aveva fatto il suo ingresso anche nel dibattito italiano. Ma occorreva un ulteriore passaggio: superare l’antinomia di pensiero tra creatori di lavoro (imprenditori) e i collaboratori e lavoratori; occorreva, cioè, una riflessione specifica per approfondire la funzione dell’attività imprenditoriale, liberandola dai pregiudizi storico-culturali e inserendola nella sua dimensione etica. In questa prospettiva si rivelò strategico il convegno, svoltosi a Napoli il 12 maggio 1989, dal significativo titolo Nuove frontiere dell’etica economica, organizzato dalla Confindustria e dalla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale in collaborazione con la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Napoli, Unione degli Industriali di Napoli, Formez e Banco di Napoli. I promotori si convinsero che era giunto il momento per la prima volta di impegnare coralmente numerose personalità del mondo dell’economia, della politica, della teologia, dell’imprenditoria, del sindacato per una riflessione scientifica sui rapporti tra etica ed economia. Gli interventi, tutti interessanti e utili, hanno contribuito a mettere a fuoco che il mondo “laico”, operante nell’economico, era ancora troppo lontano e disattento alle istanze etiche. Per questo, lo scambio di vedute tra teologi, economisti, imprenditori, politici e sindacalisti ha evidenziato come anche i valori religiosi possano ispirare non solo la ricerca economica, ma anche il bene comune. Gli equilibri tra le ragioni dell’economia e quelle dell’etica sono molteplici: direzione teorica e teologico-morale, in quanto l’economia è indisgiungibile dalla concezione complessiva dell’uomo e del suo destino; direzione critica, in quanto occorre integrare il momento normativo con la dimensione sociale, politica ed economica (condizione storica); direzione pratica, confrontandosi con i fatti empirici, come il problema atavico dello sviluppo del Mezzogiorno8.

La “novità” del convegno non fu tanto o non soltanto nella molteplicità dei personaggi intervenuti, quanto piuttosto nel fatto che le analisi e riflessioni hanno avuto un preciso risvolto pratico. La consapevolezza che la forza degli imprenditori non consistesse tanto o non soltanto nella creazione di ricchezza, ma nell’autorità morale che essi avrebbero saputo guadagnarsi nella società civile, nella credibilità che avrebbero saputo conquistarsi con la coerenza dei comportamenti, nel consenso e nella fiducia che avrebbero raccolto intorno ai valori del libero mercato e dell’impresa come sistemi insostituibili dello sviluppo e della democrazia, fondati su competizione e solidarietà, meritocrazia e coinvolgimento, inclusione e condivisione degli obiettivi. La Confindustria, concependo il modello socio-culturale delle proprie imprese associate come un’organizzazione di lavoro, una comunità di risorse umane e finanziarie, riunite in un progetto di sviluppo economico e sociale, il 19 giugno 1991, in una Assemblea straordinaria approva un Codice etico per i propri associati e per gli esponenti dell’Organizzazione. Questo evento ebbe una rilevanza straordinaria, anche perché essa fu la prima in assoluto tra le Organizzazioni imprenditoriali a dotarsi di un Codice etico. Gli imprenditori si comporteranno in maniera corretta se saranno fedeli al loro specifico mandato di guidare l’impresa su questi obiettivi, sviluppando e preservando un sistema di valori e comportamenti ad essi coerenti, e assumendo tutte le necessarie decisioni, con fortezza, spirito di verità e responsabilità. In forza del Codice etico, tutti i segmenti del sistema associativo della Confindustria – primo esempio i Italia e in Europa per una libera organizzazione imprenditoriale – si impegnano ad adottare scelte ispirate ad un’autentica deontologia, quale che sia la posizione assunta dal singolo imprenditore all’interno del sistema: sia in quanto semplice associato, sia nella veste di titolare di cariche associative, sia infine in qualità di rappresentante in enti e organismi esterni. Oggi a trent’anni di distanza, si può affermare che ne è uscita una Confindustria più sicura, più autonoma, più viva, più attenta agli interessi di sviluppo socio-economico del Paese e, quindi, più rappresentativa, tanto che fu subito seguita da altre organizzazioni ed enti. Un passo importante era raggiunto: sensibilizzare le imprese a fare buona economia, operando nel mercato attraverso un’etica condivisa. Oggi questo bisogno è diventato sempre più pressante e non è più di ostacolo al realizzarsi di un’impresa, anzi è diventato il sostegno e il riferimento nella gestione, nella costruzione di un’immagine, nella fidelizzazione del mercato, nel proseguimento del successo, obiettivi dai quali la maggior parte delle imprese di tutte le dimensioni e settori ormai non può più prescindere.

La Rivista “La Società”, come anticipato all’inizio, si inserisce nel 1991, subito dopo l’enciclica Centesimus annus, in questa prospettiva di ricerca e di analisi, programmando ed elaborando, anno dopo anno, le tematiche riguardanti, l’economia, il ruolo del libero mercato, l’attività d’impresa, la funzione dell’imprenditore, il profitto, l’azione dello Stato, il ruolo complementare e necessario tra Stato e mercato, la ridistribuzione delle risorse e la finanza pubblica, la valorizzazione dei talenti, il ruolo dei corpi intermedi, i consumi, le opportunità ed i rischi della globalizzazione, lo sviluppo integrale e solidale, la dimensione etica ed educativo-culturale dell’intero sistema socio-economico, ecc. Tutti argomenti trattati non solo nelle rubriche “Ricerche”, “Studi”, “Agorà”, ma anche evidenziando tali problematiche in occasioni di eventi e anniversari in numeri monotematici, nonché suggeriti dalla promulgazione di documenti pontifici o ecclesiali.

Alcune tematiche, che vanno dai principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa (dignità della persona umana, bene comune, destinazione universale dei beni, sussidiarietà e solidarietà) ad altre problematiche come l’ecologia e l’ambiente, la democrazia economica, la partecipazione, ecc. venivano affrontate a parte, in un supplemento della rivista. Scorrendo le pagine della Rivista notiamo particolare attenzione ad alcuni temi irrisolti o che hanno ancora bisogno di approfondimenti, quali: il ruolo del mercato, in confronto con le altre istituzioni sociali, la dignità e il posto del lavoro nella società moderna, il diritto di uguaglianza dei cittadini e le pari opportunità di partenza, il rapporto tra efficienza ed equità, il concetto di povertà e delle disuguaglianze, lo sviluppo integrale e sostenibile.

 

3 . Rinnovamento editoriale

Dopo dieci anni, a partire dal n. 5/6 del 2002 – come già accennato - la rivista si rinnova profondamente con un nuovo direttore, Dott. Claudio Gentili, e con un nuovo Comitato scientifico e di redazione. Essa si presenta con un forte impegno culturale, proiettato sull’azione sociale allo scopo di “riscoprire, riproporre, ripensare e riattualizzare il valore della DSC” e sulla “ripresa della progettualità”, e quindi sullo “studio scientifico, interdisciplinare, sistematico, orientativo”: obiettivi a cui si ispira subito la linea editoriale. Il Magistero sociale di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI, in straordinaria continuità tra loro si è ancorato ad una visione della dottrina sociale come parte integrante della teologia morale. È “Cristo”, infatti “che svela l’uomo all’uomo” (Gaudium et spes, n.22), espressione più volte ripresa da Papa Wojtyla. Il filo conduttore che lega i due Pontefici è rappresentato da due encicliche in particolare: la Laborem exercens (1981) e la Caritas in veritate (2009). Entrambe sono legate da una idea di fondo: la percezione che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica e il trait d’union è costituito dall’enciclica Evangelium vitae (1995), che afferma che la questione antropologica è la nuova questione sociale, fino all’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013) di Papa Francesco. Già la seconda parte dell’Enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI (pubblicata il 25 dicembre 2005), esplica il tema della solidarietà, come “carità sociale”. Ma forse l’aspetto speculativo più rilevante appare la chiara demarcazione dei compiti tra Stato e società civile: al primo spetta l’amministrazione della giustizia (rispetto della persona e dei suoi diritti); alla seconda, la promozione della solidarietà (sempre connessa al principio di sussidiarietà, con cui va concepito il ruolo dello Stato). L’Enciclica Caritas in veritate riprende lo stesso modo di affrontare la questione sociale già presente nella Populorum Progressio di Paolo VI (1967) e ben evidenziata nella Laborem exercens, che di per sé non è un enciclica sul lavoro (il titolo riporta un accusativo e un participio e il soggetto, l’uomo, è sottinteso), ma sull’uomo che lavora, e in questo senso ribadisce il concetto per cui, anche nell’attuale economia globalizzata, si  può e si deve vivere un'apertura alla solidarietà, che non va confinata alla sola società civile. Se il lavoro è vocazione vuol dire che dà una risposta alla chiamata di Dio a trasformare la terra, a servire la vita. Inoltre, Papa Ratzinger chiede una globalizzazione anche del principio di sussidiarietà da parte della Comunità Internazionale, rappresentata dall’ONU e dalle varie agenzie che, invece, mostrano il logorio e la corruzione tipica delle grandi amministrazioni centraliste statali, rendendo inefficace la realizzazione dei fini del bene comune a livello mondiale. Si tratta dello stesso tipo di analisi che ha portato Papa Francesco a definire l’epoca attuale, dal punto di vista internazionale, come l’epoca della globalizzazione dell’indifferenza.

Non è facile in poche righe poter fornire un’interpretazione dettagliata della storia e dell’attività de “La Società” di questi 30 anni, come, del resto, diventa impossibile ricostruire con precisione quali siano stati i contributi che essa ha dato sia al dibattito politico-sociale, fornendo anche numeri monotematici, sia nell’impegno a formare il laicato cattolico sui valori della DSC. Seguendo l’esempio del grande sociologo ed economista Giuseppe Toniolo (1845 – 1918), proclamato beato il 29 aprile 2012, che richiamò più volte i laici cattolici ad un “ridestamento”, alla necessità di un risveglio, attraverso lo studio della DSC, allora agli esordi, per comprendere le situazioni sociali e le crisi, la rivista ha tenuto fermo il timone sull’assunto che non ci può essere efficace azione sociale senza un solido pensiero sociale. Le migliori pagine della storia del movimento cattolico, infatti, sono lì a ricordarcelo: sono state scritte da uomini e donne che hanno saputo coniugare carità (azione) e verità (pensiero).

Una funzione non secondaria in quest’ultimo periodo “La Società” l’ha svolto migliorando la veste grafica, e ampliando il suo raggio di azione. Primo fra tutti il consolidamento della rubrica “Strumenti per l’animazione pastorale”, nella quale, dopo la pubblicazione del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), per cinque anni consecutivi si è proposta di semplificare e strutturare sinteticamente il testo in modo da renderlo maggiormente fruibile ai vari contesti sociali economici, politici e formativi. Successivamente ha dedicato una sequenza di schede all’enciclica Caritas in veritate, e dal n.5/6 del 2011, è iniziata nella rubrica “Strumenti per l’animazione pastorale” la presentazione dei principali documenti del Magistero sociale, evidenziando i punti di congiunzione delle varie problematiche della realtà sociale che caratterizzano l’agire dei laici cristiani. Lo scopo è quello di semplificare il vasto corpus dottrinale, facilitandone l’accesso e la comprensione. Il lavoro si rivela utile sia per una conoscenza articolata e cronologica su determinate tematiche di perenne verità, sia per una visione antropologica e unitaria da cui attingere i valori da trasmettere e da riversare nell’attuazione del bene comune.

Un’altra iniziativa di grande rilievo è stata la pubblicazione del Supplemento “Etica ed economia”, allegato ad ogni numero della Rivista a partire dal n.1/2007. Sotto la responsabilità scientifica di Paolo del Debbio e la collaborazione di Paola Ortelli, per sette anni si sono diffusi presso il pubblico, soprattutto accademico, studi della tradizione cristiana nel campo dell’etica economica, non facilmente rintracciabili e di non facile consultazione a causa anche della lingua (per lo più latina).

Riprendendo la nota immagine di Giano bifronte, “La Società”, da una parte, costituisce il substrato scientifico e culturale (nelle sezioni “ Ricerche” e “Studi”) alle molteplici iniziative/attività del centro propulsore, costituito dalle due Fondazioni “Segni Nuovi” e “Giuseppe Toniolo”, a cominciare dai “Gruppi della DSC”, sorti in molti territori e che ogni anno si ritrovano tutti insieme al Festival della DSC, dalla “Scuola per l’Alta Formazione in DSC”, giunta – come il Festival - alla sua undicesima edizione e dalle molteplici iniziative di formazione per giovani e mondo dell’impresa, dai “Laboratori”, organizzati dalla stessa Rivista come occasione di incontro, di confronto e di discernimento, e, dall’altra, come supporto di ricerca alle linee tematiche delle periodiche Settimane dei Cattolici Italiani, di cui la prima fu promossa nel 1907 a Pistoia proprio da Giuseppe Toniolo, una delle realtà più caratteristiche dell’Unione Popolare Cattolica Italiana per divulgare idee, progetti, soluzioni, realizzazioni.

Papa Francesco ha innovato profondamente il modo di affrontare la DSC: ha determinato un riposizionamento del suo asse fondamentale. Mentre Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis affermava che la DSC è dottrina morale, che indica qual è la posizione giusta sui vari problemi della società, senza motivarla e senza un obbligo di attuazione (in analogia con la “legge” per san Paolo), papa Francesco ha spostato l’intero discorso sociale dal piano della morale al piano della fede. Non ha cambiato tanto la DSC, ma la pone come questione di fede: dunque interpella la fede di ognuno, obbligandolo a prendere concretamente posizione. Il disimpegno (dalla politica, dall’impegno sociale) è disimpegno dalla fede. È una fede che si arresta là dove iniziano i problemi, che si autolimita, che si coltiva solo in un ambito chiuso, che rinuncia a manifestare la sua forza in ambiti vitali fondamentali: non citazioni e celebrazioni, ma mettere le mani in pasta, sporcarsi le mani, arruolare giovani economisti e imprenditori per “dare un’anima all’economia di domani”9, proponendo un modo convincente di affrontare la questione dell’ambiente, invitare all’amicizia sociale per realizzare la fraternità fra tutti. In questo modo il discorso sociale acquista una forte motivazione, quella più profonda e ultima, la fede, e diventa, per lo stesso motivo, un impegno pressante, non un discorso generale, ma un preciso vincolo all’azione. Anche nella società del pluralismo culturale la DSC rimane un giacimento di reciprocità, gratuità, dono e fraternità. L’esempio è lo stesso san Francesco, che visse nel periodo di una rivoluzione economica e sociale, dando vita ad un tipo di struttura che, invece di essere piramidale, era sussidiaria e soprattutto diede vita al concetto di dono e fraternità. Potrebbe sembrare una forzatura – per non dire un paradosso – associare le radici della scienza economica al pensiero della Scuola francescana, ma in realtà il lessico del modello dell’economia di mercato nasce proprio da quella Scuola. Pochi sanno che il primo Monte di Pietà, che erogava prestiti a modico interesse ad artigiani piccole imprese e alle famiglie venne fondato da un francescano, fra Barnaba Manassei a Perugia nel 1462. L’idea della generatività e produttività del capitale per lo sviluppo e il bene comune fu rivoluzionaria perché il denaro che veniva immesso nel processo produttivo per una finalità di benessere collettivo diventava “capitale buono”.

 

Oreste Bazzichi

 

NOTE:
1 Cfr. Ivi, pp. 2-31.
2 Brani scelti da Michael Novak e riprodotti nella sua presentazione al libro di M. DE GIROLAMO, Da Sturzo a Novak. Itinerari etici del capitalismo democratico, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998.
3 Cfr. Mondo economico, 28 marzo 1985.
4 Cfr. testo con commenti riportato da “Quaderni di documentazione” della Confindustria, preparato in occasione del convegno sul tema “Etica ed economia. Dove va l’Europa” (Roma, 20 giugno 1991).
5 Convegno svoltosi il 13 dicembre 1986 all’Augustnianum. Di particolare interesse è il fatto che il convegno fu preceduto da un incontro, avvenuto nella sede di La Civiltà Cattolica, il 25 febbraio 1982 tra Confindustria e gli scrittori della rivista sulla Laborem exercens, nel corso della quale P. Scoppola ebbe ad ammettere – in dialogo con Franco Mattei – l’esistenza di una evidente incomunicabilità tra mondo della produzione ed esperienza cristiana (Cfr. Supplemento a La Civiltà Cattolica, quaderno n.3177 del 1982; O. BAZZICHI, Etica ed economia. Riflessioni sugli incontri Confindustia- Civiltà Cattolica, in “Studi Sociali”, n. 11 del 1989.
6 Cfr. Mondo Economico, 6 aprile 1987.
7 Segnaliamo i più importanti. Convegno organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici, dall’Istituto dell’economia tedesca, dalla Fondazione Adenauer e dalla Federazione Internazionale delle Università Cattoliche sul tema Chiesa e mondo economico: corresponsabilità per il futuro dell’economia mondiale, Roma, Università Urbaniana 21.24 novembre 1985, in “Il Regno Documenti”, 31(1986)99-104. Convegno promosso dal Mediocredito Lombardo su Cultura etica e finanza, Milano 21 febbraio 1987. Convegno promosso nell’ambito della preparazione del VII Congresso Eucaristico diocesano della Chiesa bolognese sul tema Denaro e coscienza cristiana, Bologna 10-11 aprile 1987 (Ed. Dehoniane, Bologna 1987). Convegno organizzato dall’Istituto Internazionale Jacques Maritain, in collaborazione con la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Cagliari, su Etica ed economia: i documenti dei Vescovi dei paesi industrializzati, Cagliari 9-10 0ttobre 1987. Convegno promosso dalla Commissione CEI per i Problemi Sociali e del Lavoro su Uomini, nuove tecnologie, solidarietà: il servizio della Chiesa italiana, Roma 17-21 novembre 1987, in “Il Regno Attualità”, 32 /1987)623-625. Convegno promosso dalla Commissione CEI per i Problemi Sociali e del Lavoro, d’intesa con l’Istituto Internazionale Jacques Maritain su Etica e democrazia economica, Roma 17-18 febbraio 1989, in “Il Regno Attualità”, 34(1989)155ss. Infine, per quanto riguarda ancora l’Italia, si segnala il documento della Commissione CEI per i Problemi Sociali e del lavoro su Chiesa e lavoratori nel cambiamento, Roma 17 gennaio 1987, in “Il Regno Documenti”, 32 (1987)167-176.
8 Per una sintesi di tutti i numerosi interventi (dai teologi dell’Università Gregoriana a Vittorio Coda della SDA-Bocconi, dai docenti della Sapienza e della LUISS all’Università di Napoli e Salerno, dagli imprenditori Giancarlo Lombardi, Vincenzo Giustino e Antonio D’Amato a Ferdinando Ventriglia (Banco di Napoli) e Sergio Zoppi (Formez), dal giudice costituzionale Francesco Paolo Casavola a Giovanni Goria e al cardinale Michele Giordano, ecc. Cfr. Nuove frontiere dell’etica economica, a cura di S. Cipriani, Ave editrice, Roma 1990.
9 Cfr. Messaggio di Papa Francesco per l’evento Economy of Francesco, Roma 11 maggio 2019. Si tratta della convocazione ad Assisi di tutti i “giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per fare un patto per cambiare l’attuale economia”. La città di Assisi diventa la nuova Davos francescana per il confronto e dialogo sui temi dell’ecologia integrale (ambientale, economica, sociale, culturale, della vita quotidiana, che protegge il bene comune e sa guardare al futuro) e della gratuità e della fraternità (encicliche Laudato sì e Fratelli tutti).

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pdfIl fenomeno Great Resignation, l’aumento costante e continuo di dimissioni volontarie dal lavoro, entra saltuariamente nel dibattito italiano senza raccogliere l’interesse che merita. Colpisce, nell’attuale difficile contingenza, la scelta volontaria di abbracciare un periodo di precarietà lavorativa anziché ricercare un solido ancoraggio esistenziale. Le spiegazioni di natura economica non convincono fino in fondo e molte domande rimangono irrisolte.

Il presente contributo affronta questi interrogativi attraverso un’analisi più ampia del fenomeno e propone una visione sul possibile sviluppo futuro.

 

1. I dati della Great Resignation

Il 10 maggio 2021, Antony Kloz, professore associato di management alla Texas A&M University, rilasciava un’intervista a Bloomberg in cui annunciava: «sta arrivando la Great Resignation»1. Infatti, nei mesi seguenti, ben 47,4 milioni di lavoratori statunitensi si sono dimessi dai loro impieghi e molti senza avere pronte delle alternative.

A metà settembre, l’Harvard Business Review2 pubblicava un’analisi su più di 9 milioni di lavoratori in oltre 4.000 aziende, da cui risultò che la tendenza più forte alle dimissioni era nella fascia di età 30-45, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. Questo fenomeno, ricordava Derek Thompson su Atlantic3, era comparso anche negli anni ’60 e ’70 ma in presenza di un’economia più florida, scomparendo con la crisi del decennio seguente per la paura di perdere, se disoccupati, i benefici dell’assistenza sociale.

Kathryn Hymes, su Wired4, riportava che il 40% dei lavoratori intervistati progettava di dimettersi nei seguenti 3-6 mesi e il 18% lo riteneva certo. Il sondaggio, effettuato in Australia, Canada, Singapore, USA e Regno Unito, riportava risultati incredibilmente omogenei. Persino gli imprenditori erano concordi (54%) nel percepire un turnover maggiore del solito e molti (64%) si aspettavano un peggioramento. In generale, chi pensava di dimettersi non aveva ancora trovato un’altra occupazione nel 36% dei casi.

Anche l’Italia è stata colpita da questo fenomeno.

Analizzando le Note trimestrali del II trimestre 2021 del Ministero del Lavoro5, si scopre che tra aprile e giugno (inizio della Great Resignation) sono terminati 2.587.000 contratti. Il 59% di questi si è concluso con le dimissioni volontarie dei lavoratori segnando l’incremento record del 37% rispetto al trimestre precedente, dell’85% su base annua e del 10% rispetto al 2019. Il rapporto Excelsior6 del mese di ottobre 2021 evidenzia come, a fronte di 2,4 milioni di disoccupati, ci siano ben 505.000 posti vacanti, specialmente nel settore ICT, con una crescita del 29% rispetto al 2019.

ISTAT conferma che nel 2021 l’Italia ha recuperato 650 mila occupati, per il 60% con impieghi precari - infatti mancano ancora 286 mila per tornare al febbraio 2020. Non bisogna farsi ingannare da letture quantitative o statistiche. Da inizio pandemia (appunto, febbraio 2020) l’Italia ha perso quasi mezzo milione di forza lavoro (481 mila per la precisione). Il ritorno al 59% del tasso di occupazione, lo stesso del pre-Covid, è artefatto contabile: il divario si è chiuso solo a livello di tasso di occupazione, non di occupati.

 

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Il quadro generale è piuttosto fluido e contraddittorio: alta disoccupazione, grande offerta di impiego, aumento delle dimissioni dal lavoro, crescita economica. Quali sono le cause che si ipotizzano? Quali sono le soluzioni prospettate?

 

2. Un problema economico?

Le prime reazioni collocavano il problema all’interno delle dinamiche industriali e lavorative, proponendo soluzioni ingenue o semplicistiche. Ad esempio, si accusava il deterioramento delle relazioni e la scarsa capacità di coinvolgimento dei collaboratori da parte dei responsabili. Così Jill Hauwiller di Forbes7, basandosi su una ricerca dell’Harvard Business Review8 in cui si notava l’incapacità del 37% dei manager di dare feedback positivi, consigliava di esprimere gratitudine in modo efficace.

Gli osservatori economici si concentrarono sulla staticità del lavoro nell’ultimo anno. Il fenomeno si giustificava con la ripresa del mercato che, avendo liberato le domande in attesa, le vedeva sovrapporsi e sommarsi alle normali richieste del periodo in corso. Altri ipotizzarono una reazione al burnout, il punto di rottura dello stress raggiunto quando l’impegno quotidiano diventa superiore alle proprie forze. Si cercò di frenare l’emorragia di lavoratori anche con l’aumento dei salari, ma si crearono le condizioni favorevoli affinché si cercassero nuove occupazioni più redditizie. Non ultima, venne la critica ai sussidi sociali. L’accusa ricorrente era di disincentivare la ricerca e l’impegno nel lavoro. L’aumento dell’assistenza alla disoccupazione era stato visto da molte aziende come un premio all’ozio. Inoltre, le minori occasioni di spesa, causa lockdown e restrizioni, aveva permesso l’accumulo straordinario di risparmio tale da affrontare con meno affanno i periodi di inattività.

Marco Bentivogli, ex segretario generale Fim-Cisl ed oggi Coordinatore Nazionale di Base Italia, ha cercato di portare la Great Resignation al centro della discussione con articoli e interviste sulla stampa nazionale. Anche nel suo ultimo libro affronta questo tema9. Bentivogli mette in evidenza una perdita di senso del lavoro come strumento di autorealizzazione notando che «il ‘valore’ del lavoro non corre di pari passo con l’importanza soggettiva del suo senso […] la vera sfida è ripensare un lavoro che renda più umani»10. L’ex sindacalista, portatore di una nuova visione del mondo industriale, auspica un “lavoro ad umanità aumentata”, un lavoro che «richieda la nostra dote più incontendibile con le macchine e cioè la nostra #umanitàaumentata»11. Per fare questo, occorre «valorizzare la libertà di scelta delle persone e le motivazioni che orientano i loro percorsi»12. Rilevando come il lavoro sia anche relazione, afferma che «ritessere la comunità di lavoro è fondamentale proprio per ricostruire il nuovo senso del lavoro»13.

Sono osservazioni sicuramente valide, ma ancora nel solco dell’analisi economica ed ignare degli aspetti antropologici e sociali di due anni di pandemia. Uno sguardo interdisciplinare, capace di guardare alla poliedricità dell’animo umano, mostra motivazioni e tendenze che sfuggono ad economisti ed imprenditori.

 

3. Workism e Crisi Sociale

Le spiegazioni fin qui riportate, sono sicuramente vere ed importanti, ma non spiegano un fenomeno così particolare e duraturo. Great Resignation e ‘lavoro ad umanità aumentata’ sono definizioni che raccontano le increspature in superficie. Manca il racconto del riallineamento in atto fra lavoro e vita personale, lì dove si inserisce la riscrittura del senso del lavoro. Nella ricerca di questo bilanciamento, la riflessione si deve allargare e farsi inclusiva della famiglia, degli amici, della vita spirituale. Come afferma la già citata K. Hymes, dobbiamo comprendere e descrivere un nuovo evento, abbandonare termini e concetti non più attuali, «dobbiamo sviluppare un vocabolario più ampio su come il lavoro si stia evolvendo alla luce della pandemia»14.

Una delle parole da ripensare è burnout, frettolosamente usata per giustificare o condannare qualsiasi comportamento. Dovremmo allargarne il concetto ed includere il complesso di sentimenti d’impotenza rabbiosa e disperata provati per la morte di tante persone che non erano estranei, ma familiari, amici, colleghi; della privazione del contatto fisico, del pianto nascosto nell’intimità di un abbraccio, delle relazioni costruite sulla condivisione della vita. A differenza di altri eventi drammatici e terribili, dagli incidenti ai terremoti, la pandemia persiste nel tempo e rinnova dolori e sofferenze. A questo si aggiungono le preoccupazioni per la guerra in atto e le sue conseguenze. Per questo motivo, la morte si percepisce così vicina, tutti i giorni, fino ad interrogarci sul perché delle nostre azioni, lo scopo, il fine, l’eskaton. La vita si rivela per quello che è: fragile, breve, meravigliosa. Davvero, vale la pena sacrificarla per il lavoro? Cosa fornisce senso, appagamento, soddisfazione felicità all’esistenza?

Con le scuole in DAD, la maggioranza delle donne ha dovuto rinunciare al proprio lavoro per stare con i figli. Lo smart working può averle aiutate, ma laddove lo era anche il compagno chi avrebbe cucinato, fatto la spesa, pulito la casa? Il lavoro da casa e le restrizioni hanno favorito la costruzione di una comunità di lavoro online, ristabilito o mantenuto i legami che il distanziamento fisico stava rompendo. La pandemia ha riportato le famiglie in una situazione relazionale pre-industriale, dove tutto il gruppo viveva e lavorava in spazi comuni. La riscoperta della dimensione familiare ha imposto una riflessione personale sul lavoro: vale il sacrificio della mia famiglia, dei miei hobby, dei miei interessi? Se lo facessi per la mia famiglia, che senso avrebbe se non possiamo stare insieme? Sono domande urgenti per le categorie più svantaggiate che devono lavorare il doppio per ottenere i benefici riconosciuti ai lavoratori più privilegiati. Parlo di donne con paghe inferiori agli uomini, di migranti, di precari. Il sussidio statale può essere apparso come una compensazione dei torti subiti o aver dato una sicurezza temporanea a quanti volevano abbandonare un lavoro malpagato o irregolare e cercare un’opportunità migliore.

Anche queste spiegazioni sono vere, eppure non sono ancora sufficienti per una motivazione esaustiva. Infatti, devono essere lette sullo sfondo del progressivo abbandono del workism, un processo in atto in tutto il mondo, Cina compresa.

Derek Thompson definisce il workism «la convinzione che il lavoro non sia solo necessario alla produzione economica, ma anche il fulcro della propria identità e dello scopo della vita; e la convinzione che qualsiasi politica volta a promuovere il benessere umano debba incoraggiare sempre più lavoro»15. Un tempo il lavoro era finalizzato alla sopravvivenza e a soddisfare le necessità più urgenti della vita. Con l’industrializzazione, i bisogni primari sono stati soddisfatti e si è rivolta l’attenzione alla produzione e consumo dei beni effimeri, indicatore del livello di realizzazione personale16. Il lavoro, da mezzo di sopravvivenza, è diventato carriera e la scrivania è diventata l’altare su cui sacrificare la propria vita. Così facendo si sono soddisfatte le esigenze del mercato lasciando inappagati i desideri personali.

Non è un caso che siano i Millennials i protagonisti della Great Resignation. Più istruiti delle generazioni precedenti e da queste convinti che il duro lavoro avrebbe ricompensato i sacrifici, si ritrovano dal 2008 al centro di una continua crisi. Il sentimento prevalente è di tradimento e di inganno tanto da chiedersi: «vale la pena sacrificare la propria vita per tutto questo?»

Persino in Cina è sorto un movimento culturale analogo. Lying Flat is Justice è il nome di un post di Luo Huazhong, un giovanotto della provincia del Sichuan che ha lasciato il posto fisso per vivere di lavori saltuari girando liberamente il paese in bicicletta. Il Lying Flat ha avuto subito successo tanto da convincere il New York Times ad intervistare Huazhong17 e la censura governativa a cancellare il post18. Le motivazioni sono le stesse: un ritmo di vita insostenibile, promesse non realizzate, desiderio di maggiore tempo per sé.

In definitiva, nel nuovo equilibrio tra lavoro e vita privata, il lavoro non è più il fulcro dell’identità. Uno studio della Harvard Business School19 ha mostrato come la stragrande maggioranza dei lavoratori è felice quando sta con familiari ed amici ed i neolaureati ambiscono lavori che lascino loro tempo sufficiente per coltivare interessi personali ed hobby.

La facoltà di scienze sociali della Cambridge University ha condotto una ricerca sull’employment dosage20, cioè la quantità ottimale di lavoro retribuito per mantenere la “sanità mentale”. Meno di un giorno di lavoro retribuito a settimana genera depressione, di più non produce vantaggi apprezzabili se non il rischio di stress e burnout. «Nei prossimi decenni potremmo vedere l'intelligenza artificiale, i big data e la robotica sostituire gran parte del lavoro retribuito attualmente svolto dagli esseri umani», ha affermato il dott. Daiga Kamerāde, capo ricercatore di Employment Dosage. «Se non c'è abbastanza lavoro per tutti coloro che vogliono lavorare a tempo pieno, dovremo ripensare le norme attuali. Ciò dovrebbe includere la ridistribuzione dell'orario di lavoro, in modo che tutti possano ottenere i benefici per la salute mentale di un lavoro, anche se ciò significa che lavoreremo tutti per settimane molto più brevi».

Ad inizio 2020, la premier finlandese Sanna Marin ha proposto un orario di lavoro flessibile di 24 ore settimanali (quattro giorni per sei ore), come ulteriore riduzione delle 30 ore lavorate allora, secondo l’OCSE, la media europea è di 30 ore settimanali e in Italia ne lavoriamo 33, in Svezia e in Germania si lavorano 26 ore, in Olanda 28 e 29 in Francia.

È possibile che nel futuro lavoreremo solo un giorno a settimana?

 

4. Crisi del capitalismo

Luciano Floridi ritiene equivoca la definizione di ‘Intelligenza Artificiale’ perché ipotizzerebbe una qualche capacità razionale del tutto assente in un dispositivo tecnologico digitale. La meraviglia, secondo il filosofo, è la capacità di svolgere perfettamente dei compiti a ‘zero intelligenza’, cioè l’Intelligenza Artificiale altro non sarebbe che la capacità dell’uomo di far eseguire ad una macchina priva di intelligenza il lavoro di un uomo intelligente ed esperto21.

L’Intelligenza Artificiale è fondamentale per l’Industria 4.0 e Bentivogli afferma che «le vere aziende 4.0 inseriscono negli obiettivi la “zerofatiche”, perché la fatica è sempre più inutile e costosa e con essa gli eccessivi carichi posturali, la scarsa ergonomia»22. È un processo in cui le macchine a zero intelligenza sostituiscono il lavoratore umano, generico o specializzato (sicuramente una risorsa con intelligenza). La narrazione comune vuole che il progresso tecnologico crei più posti di lavoro di quanti ne distrugga. Oggi siamo ancora sotto i livelli occupazionali di pre-pandemia che, a loro volta, erano sotto i livelli del 2008 e, nonostante tutto, aumenta la produzione e il prodotto interno lordo. Grazie alla tecnologia si produce di più, con meno costi e meno lavoratori umani. La tecnologia sembra produrre pochi posti di lavoro oltretutto precari, malpagati e non appaganti. Si cercano persone con alti livelli di studi e di preparazione che, di contro, nutrono forti aspettative disattese dalle condizioni di lavoro offerte23. Spesso l’adagio «non trovo personale adatto» dovrebbe completarsi con «non trovo personale adatto alle condizioni che voglio pagare».

È un problema che nasce da lontano ed oggi si manifesta in tutta la sua virulenza.

Fino agli anni ‘70 il sistema economico riusciva ancora a garantire un progresso e ogni incremento di produttività determinava un aumento di occupazione con trasferimento proporzionato delle ricchezze al lavoratore. In questa fase, è ancora attivo lo sgocciolamento24 della ricchezza dalle classi abbienti verso le classi sociali più basse. L’industrializzazione permise di aumentare la quantità di beni prodotti, l’abbassamento dei prezzi ed aumenti salariali che permettevano la creazione di nuovi mercati, cioè la possibilità di spendere maggiormente e diversificare gli acquisti. Si lavorava tanto e con sacrificio, ma si migliorava la qualità della vita. Intere generazioni hanno tratto vantaggio da questo sviluppo potendo accedere ai beni primari tanto da iniziare a rivolgere l’attenzione a quelli superflui, segnando il passaggio dall’economia di scarsità all’economia dell’abbondanza. Ogni famiglia aveva il padre assunto con posto fisso ed un reddito sufficiente per accumulare un risparmio, mandare i figli a scuola, curarsi, avere un’auto, villeggiare. Il benessere determinò la saturazione del mercato dei beni primari e la conseguente richiesta di prodotti personalizzati e diversificati. La nuova domanda impose processi di ristrutturazione aziendale e il contenimento dei costi di produzione, obiettivo che si raggiunse ricorrendo alla meccanizzazione ed ai licenziamenti. Il tentativo di correzione generò un modello definito “neoliberalismo”25 che, a sua volta, è stato messo in crisi dalla progressiva introduzione delle tecnologie digitali e robotiche.

Lo studio di Erik Bryniolfsson e Andrew McAfee26, dimostra come l’occupazione nell’industria privata non cresca più nonostante l’aumento della produttività: le industrie producono di più ma non assumono. In Italia, Domenico De Masi27 e Roberto Ciccarelli28 parlano della fine del lavoro, della scomparsa della manodopera e della necessità di ripensarne le categorie. Il primo passo in questa direzione è considerare superato e superabile il modello produttivo attuale. Domandiamoci: siamo nella condizione migliore possibile e non ci sono ulteriori opzioni? Dobbiamo accettare che il (neo)liberalismo sia il sistema economico ottimale? Se non ci fosse un’alternativa significherebbe che l’evoluzione economica umana avrebbe trovato un limite invalicabile. Così formulato, il postulato è difficile da credere in modo convincente: colonizzeremo Marte nell’arco di due secoli, faremo innesti cibernetici ma non cambieremo sistema produttivo?

Josh Bivel e Lawrence Mishel29 hanno dimostrato che, dal 1980 ad oggi, a fronte dell’aumento della produttività del 72%, la quota di ricchezza trasferita ai produttori è stata del 63%. Nello stesso periodo la crescita del reddito medio è stata del 42,5%, ma l’aumento del reddito mediano solo 8,7%. Grazie alla tecnologia si fanno più guadagni con meno persone e con retribuzioni più basse. L’evoluzione cui stiamo assistendo sta estromettendo gli uomini dalla produzione aprendo un problema sociale ed antropologico nuovo. «Senza un approccio sistematico alla costruzione di una nuova economia, e senza la solidarietà strutturale che occorrerebbe per far passare un simile cambiamento»30 i lavoratori sono destinati alla povertà o peggio ad ingrossare la classe dei lavoratori poveri31.

Dunque, il lavoro sembra sia sempre più appannaggio dei sistemi tecnologici confinando l’uomo in un angolo di povertà più o meno estrema. Se è questo il nostro futuro, quale alternativa si può ipotizzare? Davvero domani ci sarà più occupazione, il lavoro sarà più gratificante, umano e ben pagato? Davvero varrà la pena continuare a sacrificarsi aspettando questo futuro? I Millennials non ci credono più e le nuove generazioni addirittura non riescono ad entrare nel mondo del lavoro.

 

5. Il lavoro umano

Non lavorare o, peggio, non sacrificarsi nel lavoro appare una blasfemia, quasi la volontà di sfuggire alla punizione comminata dal Signore ad Adamo ed Eva: guadagnarsi da mangiare «con la fatica e il sudore della fronte» (Gen 3, 17-19). L’esegesi rabbinica non giustifica questo senso di colpa32. Il Signore punisce la Terra per le sue disubbidienze ed a lei rivolge la condanna: “cardi e spine produrrai” (Gen 3, 18). Adamo, sentendolo, domanda: «dovrò mangiare con gli animali nella stessa greppia?». Impietosito, il Signore risponde: «con il sudore della tua fronte mangerai» (Gen 3,19). È un comando positivo e non una punizione. Il lavoro è orientato verso un bene, è capace di significare la peculiarità umana, di rispettarne la dignità. Il lavoro positivo, benché con sudore, meglio si accorda con il vero lavoro cui era destinato l’uomo: «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 16). Esiste un lavoro buono, bene-detto in cui l’uomo può sentirsi felice, in armonia e relazione con il prossimo, il creato e Dio. È il modello cui possiamo ispirarci per la costruzione di una società migliore.

Il lavoro appartiene alla condizione originale umana e non è una punizione o una maledizione. Diventerà fatica dopo il peccato di Adamo ed Eva, ma rimarrà la memoria del riposo settimanale come limite alla tentazione di sfruttamento o asservimento al lavoro. L’attività umana è pensabile anche come partecipazione all’opera creatrice e della redenzione, un mezzo di santificazione e animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo.33 C’è una nobiltà nel lavoro a condizione che il lavoro sia rispettoso della dignità umana: «non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compi è una persona».34

Papa Francesco ha più volte denunciato la disumanizzazione del lavoro attraverso l’esasperazione del profitto e delle tecnoscienze, quella cultura digitale invisibile che governa il mondo e fa accadere eventi, come sembra volerci dire nella Laudato Si. Cambia la dimensione oggettiva del lavoro, le condizioni, le tecniche e le risorse con sui viene eseguita l’attività umana, e cambia anche la dimensione soggettiva, la consapevolezza del suo agire ed il significato che ne attribuisce. Già Bartolomeo Sorge richiamava alla necessità «di un nuovo patto sociale, fondato su un rinnovato senso di solidarietà e di partecipazione, condiviso sia dagli imprenditori, sia dai lavoratori. Con ogni probabilità si dovranno prevedere forme di lavoro a tempo parziale; si dovranno ridurre i tempi di lavoro per facilitare l’alternanza di manodopera […] ciò vuol dire che il nuovo ordine economico per essere efficiente, dev’essere animato eticamente»,35

In conclusione, si sta inaugurando un periodo di rinnovamento delle condizioni oggettive di lavoro. Si apre la possibilità di abbandonare una visione antropocentrica dei beni della terra e riconoscerci quali amministratori in una visione dove i beni sono assoggettati alla duplice regola del possesso personale e insieme dell’uso comune36. In un mondo in cui il lavoro va quantitativamente diminuendo, bisogna progettare migliori forme di condivisioni della ricchezza e dei beni prodotti, e svincolare il benessere personale dal successo professionale o dal possesso di beni.

 

6. Una proposta per il futuro

Il futuro è un’epoca in cui lavoreremo sempre meno. Alcuni, come gli accelerazionisti37, desiderano favorire questo futuro ed accelerare il piano di transizione digitale per liberare l’uomo dalla necessità e dall’obbligatorietà del lavoro. Lavorare diventerebbe una scelta o una necessità minimale, come le 8 ore settimanali per la propria “sanità mentale”. Non siamo preparati culturalmente a questo passaggio. Abbiamo bisogno di imparare a non identificarci con o per il nostro lavoro ed iniziare a valutarci in base all’utilizzo del tempo libero.

In Europa sono in corso esperimenti sociali che voglio sperimentare proprio questi nuovi contesti. Uno dei primi fu effettuato in Finlandia a partire dal 2017. Duemila disoccupati tra i 25 e 58 anni hanno ricevuto per due anni un reddito garantito (circa il 50% di un affitto medio) indipendentemente se lavorassero o meno. A luglio 2021, il governo islandese ha reso noti i risultati di un test definito un «successo travolgente»: riduzione della settimana a 4 giorni lavorativi mantenendo gli stessi livelli di retribuzione e produttività. Unilever, colosso britannico dell’alimentazione, ha avviato a fine 2020 un esperimento in Nuova Zelanda: quattro giorni lavorativi alle stesse condizioni dei cinque precedenti. L’Accademia delle Belle Arti di Amburgo ha assegnato una borsa di studio a tre studenti per studiarne il comportamento nel periodo di inattività. Ad agosto 2020, la piattaforma Mein Grundeinkommen e l’Istituto per la Ricerca Economica Diw Berlin hanno avviato un esperimento con 122 persone che riceveranno un reddito di € 1.200 al mese per tre anni senza lavorare.

Cosa farà l’uomo senza il lavoro? Le arti liberali, le cui origini per alcuni risalgono ai tempi di Pitagora, Platone e Aristotele in Grecia, di Cicerone, Seneca e Quintiliano a Roma, erano attività peculiari degli uomini liberi, liberi dalla necessità (o schiavitù) del lavoro. Questi uomini si potevano dedicare alle arti, alle lettere, alla scienza, alla res pubblica: attività non certo noiose i cui prodotti sono ancora oggi oggetto di studio ed ammirazione. Lo stesso Vangelo ci invita a più riprese a valutare meglio e con saggezza il lavoro e quello che ne possiamo trarre: i gigli non filano e non mietono (Mt 6, 28; Lc 12, 27); l’instabilità delle ricchezze (1 Tim 6, 17); chiusura del cuore (1 Gv 3,17) e soprattutto l’inutilità dall’accumulo (Lc 12, 16-20).

La preoccupazione delle attuali politiche di ripresa non dovrebbe essere rivolta a come riorganizzare il lavoro, quanto a governare la rivoluzione culturale cui andiamo incontro. Dobbiamo liberarci dall’idea che la promozione del bene comune si possa realizzare solo attraverso politiche di incoraggiamento, sostegno o sviluppo del lavoro. Abbiamo necessità di misurare il benessere umano su metriche diverse dal PIL o dal reddito pro-capite e affidarci maggiormente a misurazioni come l’indice di Gini,

lo Human Development Index, l’Indice di Benessere Sostenibile, il Better Life Index e molti altri.

Liberati dalla necessità di lavorare per sopravvivere o per darci un’identità, avremmo eliminato numerose situazioni di conflitto. Con la pace e il tempo a disposizione, potremo conoscere e gestire meglio i nostri sentimenti, impegnarci con maggiore coscienza e responsabilità in progetti ed iniziative. Oggi il tempo libero è una risorsa rara. Diventa motivo di tristezza se non è possibile condividerlo con amici e familiari, se le agende non corrispondono e gli impegni della vita lo impediscono38. Se molta della felicità personale passa per la condivisione del tempo libero, non si può negare lo stato attuale di infelicità. Bisogna essere preparati alle relazioni personali. È il compito di questo tempo, insieme alla preparazione alla dismissione dal lavoro.

Siamo ad un crocevia della storia: il collasso del capitalismo maturo, l’ingresso in un’epoca storica (quella digitale) e la ripartenza post pandemia. Un’occasione unica e non ripetibile di correggere errori e riparare ingiustizie. Non si tratta di ritornare ad uno stato pre-pandemico basato su un sistema economico che ha prodotto morti, ingiustizie, povertà, inquinamento, egoismo, violenza. Non si tratta di trovare aggiustamenti o correzioni, come hanno provato a fare tutte le dottrine politiche dell’epoca industriale. Si tratta di entrare in un tempo nuovo e ricominciare dai rapporti sociali, dalle relazioni personali, dal riconoscere i legami che ci uniscono e ci spingono alla condivisione ed alla possibilità di vivere insieme nella pace. In questa ricostruzione, i cristiani sono portatori di un progetto sull’uomo che merita di essere ascoltato e portato al tavolo della discussione.

 

Edoardo Mattei

 

 

NOTE:
1 A Cohen, How to Quit Your Job in the Great Post-Pandemic Resignation Boom in Bloomberg BusinessWeek, 10 maggio 2021.
2 I. Cook, Who Is Driving the Great Resignation? in Harvard Business Review, 15 settembre 2021.
3 D. Thompson, The Great Resignation Is Accelerating in The Atlantic, 15 ottobre 2021.
4 K. Hymes, ‘The Great Resignation’ Misses the Point in Wired, 1° novembre 2021.
5 La Comunicazioni Obbligatorie, Nota relativa al II trimestre 2021 è stata pubblicata il 9 settembre 2021 ed è disponibile sul sito del Ministero del Lavoro,
6 L’Unione Italiana delle Camere di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura (UnionCamere), in collaborazione con il Ministero del Lavoro, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) e con l’Unione Europea, realizza, a partire dal 1997, insieme alle Camere di commercio, il “Sistema informativo per l’occupazione e la formazione” Excelsior, che ha l’obiettivo di monitorare le prospettive delle domande di lavoro e dei fabbisogni professionali, formativi e di competenze espressi dalle imprese.
7 J. Hauwiller, Gratitude May Be An Antidote To The Great Resignation in Forbes 10 novembre 2021.
8 J. Zenger, J.Folkman, Why Do So Many Managers Avoid Giving Praise? in Harvard Business Review, 2 maggio 2017.
9 M. Bentivogli, Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica, San Paolo, 2021, pp 57-77.
10 M. Bentivogli, Le grandi dimissioni in La Repubblica,12 novembre 2021.
11 M. Bentivogli, Lavoro a umanità aumentata in La Repubblica, 23 novembre 2021.
12 ibidem.
13 ibidem.
14 K. Hymes, op. cit.
15 D. Thompson, Workism Is Making Americans Miserable in The Atlantic, 24 febbraio 2019.
16 Lo aveva già capito un secolo fa T. Veblen, Teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni, Einaudi, 2007
17 E. Chen, These Chinese Millennials Are ‘Chilling,’ and Beijing Isn’t Happy in New York Times, 3 luglio 2021.
18 Link del post originario: https://gnews.org
19 A. V. Whillans, E. W. Dunn, Valuing Time Over Money Predicts Happiness After a Major Life Transition: A Pre-Registered Longitudinal Study of Graduating Students, Harvard Business School, Working Paper 19-048, 2018
20 D. Kamerāde et all, A shorter working week for everyone: How much paid work is needed for mental health and well-being? Social Science & Medicine, Volume 241, 2019, 112353, ISSN 0277-9536, https://doi.org
21 L. Floridi, F. Cabitza, Intelligenza Artificiale. Uso delle nuove macchine, Bompiani, 2021, pp. 139-162
22 M. Bentivogli, Lavoro a umanità aumentata, op. cit.
23 Un articolo molto istruttivo al riguardo: J. Dsouza, The Truth About Data Science —Why It Isn’t As Rosy as You Might Imagine (https://bit.ly/3EpMcWG)
24 Trickle down, letteralmente “gocciolamento verso il basso”, è una locuzione che identifica le teorie economiche e politiche per cui ogni misura in favore delle classi abbienti stimolerà positivamente l’economia producendo degli effetti positivi che andranno a ricadere anche sulle classi meno abbienti. Tipicamente si afferma che i tagli alle tasse permettono di liberare del capitale per investimenti che potranno dare più lavoro e quindi diminuire la disoccupazione.
25 N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, 2018, pp 92-93.
26 E. Brynjolfsson, A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell'era della tecnologia trionfante, Feltrinelli, 2017, pag 178.
27 D. De Masi, Lavorare gratis, lavorare tutti, Rizzoli, 2017; Il lavoro nel XXI secolo, Einaudi, 2018
28 R. Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, 2018.
29 J.Bivens, L. Mishel, Understanding the Historic Divergence Between Productivity and a Typical Worker’s Pay, EPI briefing paper #486, Figure A. http://tiny.cc/7xppaz.
30 A.Williams, N. Srnicek, Manifesto Accelerazionista, G. Laterza & Figli, 2018, nr. 5.
31 I working poors, secondo la definizione Eurostat, sono individui che, nonostante svolgano un’attività lavorativa ed abbiano lavorato per almeno sei mesi nell’anno preso in esame, hanno percepito una qualche forma di reddito da lavoro inferiore al 40, 50 o 60% del reddito mediano, inteso come il reddito che divide la metà inferiore dalla metà superiore della scala dei redditi nazionali. Si considerano quindi sia individui con un reddito da lavoro inferiore alla soglia di povertà, sia persone il cui reddito è più basso se calcolato come reddito familiare disponibile equivalente, rispetto ai carichi familiari.
32 L.Ginzberg, Le leggende degli ebrei, Adelphi, 1995, Vol. I, p. 88
33 Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 27
34 Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 6
35 B. Sorge, Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Queriniana, 2001, p.204
36 Una visione lucida ed attuale, è stata esposta da Tommaso d’Aquino, S. Th. II-II, q.66 a.1-2
37 Si vedano i già citati A. Williams, N. Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, 2018; N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, 2018
38 Rimando al mio articolo Calendario come organizzazione sociale in Gruppo Domenico 800 (GD800), 2 agosto 2020 (https://www.gd800.it)

 

franchi

 

Introduzione

pdfMigliaia di imprese stanno cercando di trasformare il modo di fare affari orientando la loro strategia verso una maggiore sostenibilità. Le ragioni di questa scelta sono molteplici: dal seguire la moda del momento al mitigare il senso di colpa con qualche buona azione collettiva a compensazione, dal copiare semplicemente i concorrenti al cercare di eliminarli puntando ad impossessarsi delle loro quote di mercato, dal migliorare la loro reputazione sociale alla soddisfazione di bisogni egotici individuali. La natura di queste scelte è contingente1 e si può riferire a delle variabili come la localizzazione dell’impresa, il momento storico di riferimento, il settore di appartenenza e la storia imprenditoriale.

Per una parte delle imprese orientate alla Corporate Social Responsibility, vale quanto scritto da Molteni e Todisco, secondo i quali la CSR «è una modalità con cui viene attuato ciò che è tipico dell’impresa, cioè della missione produttiva…facendosi carico delle attese degli stakeholder anche oltre gli obblighi di legge non come puro moto di liberalità». In tale prospettiva essi richiamano alla gestione caratteristica, alla valorizzazione dei collaboratori, allo sviluppo di un’area geografica e superano una concezione della CSR che si riduce a un’ottica meramente filantropica e ad un’etica utilitarista tipica delle prime due rivoluzioni industriali (Rifkin, 2014). Inoltre, il fatto stesso che nelle aziende l’implementazione della CSR si concretizzi in un progetto specifico, nella logica del project management per la quale sono indicati tempi-costi-obiettivi, comporta l’immediata valutazione del business case all’insegna della razionalità economica.

È evidente che presentarsi nel mercato come “socialmente responsabile” o mostrare una certificazione, spesso come fosse una medaglia, non conferma la qualità delle scelte dell’impresa e soprattutto non mette al riparo da futuri comportamenti opportunistici o dalle conseguenze di certe opzioni strategiche. Il paradosso di una società organizzata in ogni singolo aspetto, nella quale le imprese sono una delle istituzioni più importanti, è che, secondo il filosofo Bauman (1992), «l’organizzazione nel suo complesso è uno strumento per la cancellazione delle responsabilità». Nella prassi quotidiana si assiste, sia nelle organizzazioni pubbliche che in quelle private di medie e grandi dimensioni, ad un continuo scaricare la responsabilità secondo la logica definita da Bauman della «libera fluttuazione della responsabilità».

Per Drucker (2000), una delle componenti fondamentali del management sono i rapporti con la società e la responsabilità sociale. Egli parte dal presupposto che nessuna impresa può esistere in modo autonomo o essere fine a sé stessa. Nella sua visione, ogni impresa «è un organo della società ed esiste in funzione della società». In questa prospettiva Drucker ricorda la nascita dei monasteri benedettini quale novità sorta nel mondo occidentale nel sesto secolo. Rispetto a queste organizzazioni le moderne imprese sono maggiormente orientate verso l’esterno attraverso una rete di rapporti relazionali tesi a soddisfare dei bisogni. Diventa dunque fondamentale comprendere qual è lo scopo dell’impresa attraverso il quale essa viene posta in relazione con persone e comunità, spesso presenti, nel caso delle multinazionali, in ogni continente.

Un’impressione significativa è che sia sempre centrale la dinamica della gestione del potere cui si aggiunge il superamento della dimensione umana con l’avvento dell’industria 4.0.

Vi sono grandi imprese multinazionali che di fatto gestiscono un potere a livello planetario spesso maggiore di quello esercitato da alcuni stati nazione. Un potere che origina ancora oggi dallo “spirito del capitalismo” definito da Weber (2010), per il quale «chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti», ma anche espresso dal “razionalismo economico” proposto da Sombart6 che pone la capacità umana individuale al servizio di progetti ed organizzazioni. La transizione dal modello fordista alla fabbrica robotizzata che si è verificata in queste grandi aziende, con l’organizzazione scientifica del lavoro e lo sviluppo tecnico senza sosta, ha eliminato i limiti fisiologici legati alla turnazione dei lavoratori e ridotto il peso delle rappresentanze sindacali. Un potere divenuto talmente grande che non trova limiti nella logica perversa del “too big to fail”, o per alcuni “to big to jail”, per la quale i costi dei fallimenti ricadono sui consumatori o sui piccoli investitori. Per Chomsky(2017), la finanziarizzazione dell’economia ha spostato, dagli anni Settanta del secolo scorso in avanti, il focus dalla manifattura ai flussi di capitale per fini speculativi con la conseguente trasformazione del settore finanziario. Anche il linguaggio si è modificato con l’avvento delle trimestrali, dello “shareholder value”, degli MBO1, ecc. A questo fenomeno, dal punto di vista di Chomsky, si è aggiunta la delocalizzazione selvaggia che ha minato una delle variabili citate nell’introduzione, spostando la produzione in località con manodopera a basso costo e svuotando intere città o regioni. Le vittime di tali processi sono state non soli i lavoratori, ma anche le comunità di riferimento e l’ambiente.

Per Zamagni (2020), dalla finanza internazionale speculativa, sfuggita da ogni controllo, occorre distinguere la “buona finanza” che consente l’aggregazione dei risparmi ed il loro utilizzo efficiente in impieghi più redditizi. Dal punto di vista di Zamagni, gli stessi sistemi di incentivi per i manager dovrebbero essere rivisti e passare dalla logica dell’assumere rischi eccessivi - per la massimizzazione non solo del profitto, ma anche del valore delle azioni - a quella di dichiarare precedentemente per quale fine si intende essere efficienti. Sarà la capacità di contrastare l’aumento delle disuguaglianze e di difendersi dalle forze destabilizzanti che tendono alla finanziarizzazione anche del risparmiatore, che diventa egli stesso un potenziale speculatore, la vera sfida del futuro. A questo, per Zamagni, si somma l’ulteriore pericolo della “Globotica”, che mette insieme globalizzazione e rivoluzione digitale; nella consapevolezza che non tutte le persone nascano imprenditori od abbiano le capacità per cogliere continuamente opportunità, vi sono paesi o aree del globo all’avanguardia nelle nuove tecnologie, come la Silicon Valley ed altre invece sofferenti e colpite dal nuovo malessere della disoccupazione tecnologica.

 

1. Lo scopo dell’impresa

In questa prospettiva, diventa fondamentale ragionare sullo scopo dell’impresa. Per Drucker, «con l’affermarsi della società fondata sulla conoscenza, la società è diventata una società di organizzazioni» (Drucker, 2010) e «un’istituzione esiste per realizzare uno scopo ed una funzione, cioè una specifica funzione sociale. Nell’impresa questo significa, per definizione, realizzare determinati obiettivi di carattere economico». Dal punto di vista di Drucker, mentre per tutte le istituzioni l’aspetto economico rappresenta un vincolo, è solo nell’impresa che esso «rappresenta la missione specifica».

Una diversa prospettiva è proposta dall’organizzazione inglese “A Blue Print for Better Business”2, per la quale i comportamenti derivano dallo scopo che dovrebbe avvantaggiare anche la società e rispettare le persone. Scopo e comportamenti sono legati da un “file rouge” ed essere «guidati da uno scopo» è più importante che avere semplicemente uno scopo. Il punto di partenza di Blueprint è che l’impresa sia per prima cosa una serie di relazioni; se queste relazioni sono buone tutti traggono vantaggi da esse. In tale accezione, lo scopo diventa la ragione per l’esistenza dell’azienda al di là del profitto.

Tale approccio ricorda quanto indicato da Bruni (2012 che vede un sistema composto da quattro diverse economie: il capitalismo, con l’obiettivo del profitto o della rendita, il capitalismo delle imprese familiari, il terzo settore senza scopo di lucro e il quarto capitalismo in cui prevalgono i concetti di cooperazione e mutuo vantaggio all’insegna della sostenibilità ambientale e del recupero dei territori. Per Bruni, il capitalismo è altamente competitivo, con la tendenza ad operare senza confini purché sia garantito il profitto, mentre l’Economia Civile, rappresentata dalle imprese familiari e dal terzo settore senza scopo di lucro, deve cambiare il vocabolario tradizionale passando ad una reale condivisione. In particolare, è il capitalismo delle imprese familiari guidate da un imprenditore o dalla sua famiglia - siano esse industriali, artigianali, agricole o commerciali - a rappresentare un “capitale paziente” non interessato alla massimizzazione dei profitti nel breve, tipico dell’etica utilitarista, ma ad una prospettiva di sopravvivenza nel tempo dell’impresa.

 

2. La responsabilità sociale d’impresa

Oggi, gli approcci alla responsabilità sociale d’impresa sono molteplici. Alcune imprese si certificano, per fare misurare da un organo esterno e terzo il loro impatto sociale ed ambientale, altre realizzano dei documenti di comunicazione integrata, altre ancora cercano di avvalersi di metodi di rilevamento fatti in casa per seguire trend internazionali come l’Agenda 20303.

Ci sono poi imprenditori in difficoltà economica e finanziaria che cercano di certificarsi per “diventare interessanti”, sperando che possano essere visti in modo diverso da clienti, fornitori e banche. Questo accade quando sono presenti forti posizioni debitorie o perdite d’esercizio. Tali imprenditori non considerano che il bilancio di sostenibilità è comunque un rendiconto delle operazioni di gestione caratteristica relative ad un definito periodo amministrativo (Santesso e Sòstero, 2000). Essi dimenticano che secondo gli IAS4 il bilancio dovrebbe offrire una rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria, delle prestazioni e della modificazione della stessa. Lo stesso codice civile italiano, art. 2423, stabilisce che il bilancio deve essere redatto con chiarezza e rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società. Comune errore è inserire nei documenti di sostenibilità informazioni false, andando a svuotare di significato il concetto stesso di Corporate Sociale Responsibility il cui primo contributo rilevante risale al 1953 con Bowen che, riguardo alla responsabilità dei manager, afferma «l’obbligo per gli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni o di seguire quei corsi d’azione che sono auspicabili in termini di obiettivi e valore per la nostra società» (Molteni e Todisco, 2008).

Nella visione di Franklin5, ci sono imprenditori che ancora oggi dimostrano “piacere ed orgoglio” per avere “dato lavoro”, magari al territorio nel quale sono nati, o per “aver contribuito alla prosperità”. Essi sono mossi da un “ideale” che si rinnova continuamente nel tempo e che viene definito da Einaudi6 come una vera e propria “vocazione naturale…non soltanto la sete di guadagno”. Il premio Nobel Friedman7, negli anni Settanta del secolo scorso, indicava che «l’unica legittimazione etica e sociale del fare impresa è operare per massimizzare il profitto nel rispetto delle regole del gioco». In sostanza, per Friedman esisteva una sola responsabilità di impresa: incrementare il profitto. Ad essa si rifanno “idealmente” ancora oggi molti imprenditori, soprattutto piccoli e medi, che ricordano come, per sopravvivere nell’immediato, sia importante il flusso di cassa col quale pagare i fornitori, le utenze e i dipendenti. In questa prospettiva, la convinzione di base, è rafforzata dall’assunto taylorista e dell’approccio scientifico al lavoro, sviluppatosi nel tempo in nuove metodologie manageriali, per il quale occorre misurare tutto e rifarsi al sistema di comando e controllo tipico delle forze armate.

 

3. Il tema etico

Secondo l’economista Zingales, occorre riscoprire il fondamento morale del capitalismo (Zingales, 2012). La convinzione che la concorrenza possa fare emergere i migliori, assunto base della “teologia del mercato”, ha mostrato nel tempo i propri limiti. Per Zingales, le azioni opportunistiche che danneggiano la società nella sua interezza dovrebbero essere condannate ed i responsabili puniti.

L’introiezione di un’etica, del mercato e nel mondo degli affari, avrebbe come scopo il preservare la sopravvivenza del capitalismo. Però, nel tempo, anche se la legittimazione morale e le norme sociali hanno più o meno funzionato nel sanzionare le imprese scorrette, esse non hanno risolto da sole le distorsioni del sistema capitalistico liberal democratico.

Si tratta di un richiamo all’etica che va oltre all’imparare a “rendere conto” di quanto messo in atto e che non riguarda solo le imprese, ma anche le pubbliche amministrazioni che spesso orientano il denaro verso investimenti opachi e senza un ritorno che vada al di là del mero profitto. Drucker sostiene che «gli effetti non essenziali e non rientranti nel perseguimento dei propri obiettivi e della propria azione specifica dovrebbero essere contenuti al minimo» (Drucker, 2000). Weber, con l’etica delle responsabilità, impone che ogni decisore sia disponibile a rispondere per le conseguenze prevedibili delle proprie azioni, anche se la storia recente ha dimostrato come questo non sia sufficiente o come dalla probabilità occorra spostarsi alla possibilità (Jonas). Sacconi (2004), per superare tali problematiche, ha proposto l’idea del contratto sociale tra tutti gli stakeholder spostando il focus sulla negoziazione tra i portatori di interesse e sul rispetto del dovere contrattuale in un’accezione kantiana.

Nel tempo le imprese hanno realizzato codici etici, di matrice individualista, mai realmente letti e seguiti dai dipendenti e divenuti solo una modalità per accrescere la reputazione aziendale. Inoltre, il richiamo al codice etico rischia di manifestarsi solo dopo che si annunci pubblicamente un problema ed impiegato per commutare una sanzione al dipendente. In questa dimensione, l’incognita diventa fondamentalmente la mancanza di etica civica e del rapporto che lega la moralità con la motivazione.

In questo ambito, è necessario ricordare la paradossale difficoltà delle organizzazioni, principalmente del primo capitalismo indicato da Bruni, a motivare le persone alle quali viene chiesto molto in termini di obiettivi, impegno temporale ed emotivo, preparazione professionale, ecc. Per Bruni, la motivazione dovrebbe essere collegata al dono, inteso come “dare la parte migliore di sé”. Dal punto di vista di Bruni, frustrazioni e giustificazioni possono essere superate solo se e quando queste organizzazioni decideranno di passare dal “consumo della gioventù” al riconoscimento del dono richiesto che creerebbe nuovi legami di tipo comunitario. Si tratta, nella sostanza, di un cambio proposto all’ideologia manageriale che “usa senza gratuità”, che chiede responsabilità per raggiungere gli obiettivi, ma agisce senza responsabilità per i costi emotivi e relazionali procurati.

Nella prospettiva di Bruni si tratta di ripartire da un “management buono”, comunque presente in molte organizzazioni, che richiede “riconoscimento e riconoscenza”, nella consapevolezza che l’impresa abbia bisogno soprattutto di quanto non possa comprare dal lavoratore: entusiasmo, passione, gioia e voglia di vivere, creatività e cuore. Le persone vogliono infatti “essere viste” dai loro responsabili, che dovrebbero essere presenti nei luoghi di lavoro, in un ambiente solidale e virtuoso. Per Bruni, se il denaro è il primo linguaggio impiegato nelle relazioni aziendali occorre comprendere che vi possono essere altri linguaggi migliori e di tipo esistenziale all’insegna di un management umanistico e di relazioni generative. Questa prospettiva tiene conto dell’essere umano e delle sue vulnerabilità relazionali che possono essere superate, per Bruni, solo dalla “fiducia genuina nei propri confronti”.

Secondo Zamagni, l’indicatore “CEO Pay Ratio” evidenzia, anche per i non addetti ai lavori, le distorsioni del sistema, dimostrando come l’aumento indiscriminato degli stipendi dei top manager sia derivato dalla logica del “shareholder value” ed abbia avuto un impatto negativo anche nella motivazione dei lavoratori. Si assume che queste posizioni lavorative derivino dal merito della persona e dalla ideologia sottostante per la quale ogni forma di promozione o affidamento di incarico dipende esclusivamente dallo stesso, quale risultante di talento e impegno. Per Zamagni però, il talento dipende anche dalle condizioni del contesto e l’impegno dipende dallo stato d’animo della persona e da cosa la società considera meritorio.

 

Conclusioni

Sono spesso le grandi organizzazioni multinazionali internazionali a rappresentare la contraddizione in termini del sistema. Top management milionari, focalizzati sugli interessi individuali mascherati da una generica reputazione, impongono alle aziende codici etici e programmi per la responsabilità sociale d’impresa. Essi non sono interessati agli obiettivi di sopravvivenza nel tempo dell’azienda, ma si focalizzano su complesse e costose operazioni di fusioni ed acquisizioni per sostenere il valore del titolo o pagare dividendi ad azionisti poco appassionati delle sorti reali della loro organizzazione ed all’impatto sociale ed ambientale. Ad esempio, tale incoerenza si manifesta sempre più frequentemente con l'incetta globale di terreni agricoli8 che penalizza e depaupera intere comunità locali, nonostante bilanci di sostenibilità composti da centinaia di pagine siano spediti agli investitori istituzionali per essere poi cestinati in tempi brevi.

Fortunatamente, accanto a questo fenomeno occorre registrare anche un altro tipo di responsabilità sociale alla quale si stanno indirizzando migliaia di imprese che, superando logiche di marketing, si attivano per cambiare le cose. Si tratta di organizzazioni che, partendo dal linguaggio impiegato, hanno iniziato a parlare non solo di sostenibilità, ma anche di cittadinanza di impresa, di massimizzazione del benessere di tutti gli stakeholder, di “codice di interdipendenza” per collaborare con i propri fornitori, di gender equality committee, di obiettivi di neutralità carbonica, di valore condiviso, di codici di condotta, di diritti umani, ecc. La differenza tra queste imprese e quelle sopra menzionate, per le quali la responsabilità sociale rimane una moda del momento, risiede non solo nel significato dato alle parole, ma anche nelle risorse investite per formare i propri collaboratori e nelle opere poste in essere.

Infatti, dal punto di vista del linguaggio non basta parlare genericamente di valore e di triple bottom line, ma occorre estendere la riflessione sul significato di dono e di bene comune per divenire consapevoli di come essi possano entrare e cambiare anche il mondo economico. Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa (2004, 110), «l’oggetto dell’economia resta la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non soltanto quantitativi, ma anche qualitativi. Questo è corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui vive ed opera». In questa prospettiva il fine dell’impresa, da realizzarsi con termini e criteri economici, dunque considerando i costi ed i ricavi, diventa «servire il bene comune della società mediante la produzione di beni e servizi utili». Se «il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale» (PCGP, 2004, 60), diventa facile comprendere come la responsabilità sociale d’impresa possa essere implementata solo fondandola su una base etica che faccia riferimento alle virtù ed al senso autentico e finale, in termini di destinazione universale dei beni (Francesco, 2020,123), per il quale i progetti dovrebbero essere realizzati.

 

Massimo Franchi

 Fonti e riferimenti bibliografici
BAUMAN, ZYGMUNT (1992), Modernità ed olocausto, Bologna, Il Mulino.
BRUNI, LUIGINO (2015) Il mercato e il dono, gli spiriti del capitalismo. Milano, Università Bocconi Editore.
CHOMSKY, NOAM (2017) Le Dieci Leggi del Potere. Milano, Ponte alle Grazie.
DRUCKER, PETER (2010), Lezioni Inedite. Milano, ETAS.
DRUCKER, PETER (2000), Manuale di Management, Milano, ETAS.
FRANCESCO (2020), Lettera Enciclica Fratelli Tutti.
MOLTENI, MARIO e ALESSANDRA TODISCO (2008) Responsabilità Sociale d’Impresa. Milano, IlSole24Ore.
PCGP = PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE (2004) Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana.
RIFKIN, JEREMY (2014), La terza rivoluzione industriale, Milano, Mondadori.
SACCONI, LORENZO (2004) “Responsabilità Sociale come governance allargata d’impresa: un’interpretazione basata sulla teoria del contratto sociale della reputazione”. Liuc Papers n. 143, Serie Etica, Diritto ed Economia 11, suppl. febbraio.
SANTESSO, ERASMO e UGO SÒSTERO (2000), Principi contabili per il bilancio d’esercizio, Milano, IlSole24Ore.
SOMBART, WERNER (1978), Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano, Longanesi.
WEBER, MAX (2010) L’Etica Protestante e Lo Spirito del Capitalismo. Milano, RCS Libri.
ZAMAGNI, STEFANO (2020) Disuguali. Sansepolcro, Aboca Edizioni.
ZINGALES, LUIGI (2012) Manifesto capitalista. Milano, Rizzoli.

NOTE:

1 MBO è l’acronimo di “Management By Objectives”, la gestione per obiettivi.
2 https://www.blueprintforbusiness.org
3 L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Essa ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile.
4 Principi contabili internazionali, IAS/ IFRS.
5 Benjamin Franklin (1706-1790), statista e scienzato è considerato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti. Nel 1776 fu uno dei redattori della Dichiarazione di indipendenza e in seguito ebbe importanti funzioni federali. Dal 1785 al 1788 fu presidente della Pennsylvania e nel 1787 deputato alla Convenzione Italiana.
6 Luigi Einaudi (1874–1961). Economista di fama mondiale, uomo politico e secondo presidente della Repubblica Italiana.
7 Milton Friedman (1912-2006), economista statunitense e Premio Nobel per l’economia nel 1976, è stato uno dei principali esponenti della scuola di Chicago.
8 Fenomeno conosciuto come land grabbing.

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Salute e benessere
 
pdfNegli ultimi decenni i sistemi di welfare moderni hanno dovuto confrontarsi direttamente con le conseguenze della libera circolazione di persone, beni e servizi, indotta dall’apertura dei mercati. Il fenomeno della globalizzazione ha innescato processi di “convergenza” e “divergenza”, che hanno favorito l’integrazione delle economie emergenti di alcuni Paesi, sollevando dalla povertà milioni di abitanti attraverso meccanismi di redistribuzione della ricchezza, ma anche favorendo l’espansione delle diseguaglianze all’interno delle nazioni (Maciocco, Santomauro, 2017, p. 83; Piketty, 2013, p. 50). Questa dinamica di rapidi mutamenti non ha trasformato soltanto l’economia, ma si è estesa a molti altri campi della vita sociale, inclusa la salute, che ne è uno dei fattori portanti. Anche le repubbliche ex-sovietiche, già drammaticamente investite dalla transizione politica iniziata nel 1991, hanno assistito al manifestarsi di due fondamentali evidenze: da una parte, il progressivo dilatamento dei redditi pro-capite, che ha indotto una maggiore stratificazione socioeconomica all’interno delle nazioni; dall’altra, il peggioramento dello stato di salute della popolazione. 
 
La salute, infatti, è un fattore che ha contribuito ad ampliare le disuguaglianze all’interno dei Paesi dell’ex blocco comunista come la Bielorussia, non solo perché la transizione ha creato situazioni di maggiore vulnerabilità ed esposizione ai rischi, ma anche perché i sistemi sanitari non sono riusciti ad adeguarsi con sufficiente rapidità, né a rispondere con altrettanta efficacia, ai nuovi bisogni della popolazione. La pandemia di COVID-19 ha presentato una sfida ulteriore anche per la Bielorussia, in un momento storico di instabilità e insoddisfazione interna, segnato dalle contestazioni che hanno seguito le elezioni presidenziali dell’agosto 2020, con la conferma di Alexander Lukashenko alla guida del Paese.
 
Dopo la crisi inattesa dovuta alle drammatiche conseguenze della diffusione del virus SARS-CoV-2, secondo alcuni analisti, senza precedenti nella storia moderna (Schwab, Malleret, 2020, p. 11), tra le politiche sociali una particolare rilevanza continuerà ad essere assunta proprio dalle politiche sanitarie, che già ne costituiscono una tipologia essenziale. La salute, infatti, continuerà a rappresentare un fattore fondamentale del benessere sociale perché, come ha ben evidenziato anche Marmot (2005, p. 1103), dalla sua tutela dipenderà non solo la riduzione delle diseguaglianze e il miglioramento dello stato generale medio della popolazione, ma anche una maggiore fiducia di quest’ultima nell’interesse delle istituzioni verso i suoi bisogni e nella volontà effettiva di soddisfarli.
 
 
 
La transizione dei sistemi sanitari 
 
Il passaggio dal comunismo al post-comunismo dei Paesi dell’Europa centrale e orientale ha comportato profondi cambiamenti dei sistemi politici, economici e sociali delle repubbliche che costituivano l’Unione Sovietica, estendendosi naturalmente anche ai sistemi sanitari. Fino ad allora essi si erano sviluppati principalmente intorno al modello sovietico Semashko1. Questo era contraddistinto da una pianificazione centralizzata, fondata su numerose e poco efficienti strutture ospedaliere, su rigidi programmi verticali – per il trattamento di patologie psichiatriche, tubercolosi e tumori – e su un’organizzazione capillare di servizi di base e di strutture specialistiche territoriali (Maciocco, 2017)2. Tale modello, che assicurava la copertura sanitaria universale gratuita, funzionò piuttosto bene in URSS fino alla metà degli anni Sessanta, permettendo, in particolare, un più stretto controllo delle malattie infettive, che consentì di raggiungere significativi miglioramenti nello stato di salute della popolazione, molto vicini a quelli registrati nel più ricco e industrializzato Occidente. 
 
La successiva transizione dei sistemi sanitari dal modello Semashko è stata guidata dalle istituzioni internazionali, in particolare dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, che hanno assunto il ruolo privilegiato di advisors dei Paesi in transizione (Maciocco, 2009, p. 96). Ciononostante, l’impatto delle trasformazioni del sistema sanitario nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica, si è rivelato traumatico, perché la perdita del ruolo centrale dello stato del modello Semashko, forte al di là dell’inefficienza, è stato accompagnato da altri eventi critici a diversi livelli, quali crisi economiche ripetute, instabilità politica e gravi conflitti etnici (Maciocco, 2009, p. 97). In molti Paesi (Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kirghizistan, Moldavia), alle riforme si è associata una caduta del PIL pari anche al 50%, con prevedibili conseguenze di povertà diffusa, disoccupazione prolungata, crescente emarginazione sociale e drastica riduzione del benessere sociale. Anche in Russia si sono registrati effetti pesanti, in termini di perdita della rete di protezione dalle malattie fino ad allora garantita dallo stato. La privatizzazione dei servizi, infatti non è stata seguita dall’introduzione di adeguate strutture alternative di protezione o tipologie di assicurazioni sociali, a causa della scarsità delle risorse disponibili, dell’instabilità politica causata dalla transizione, ma anche di problemi di corruzione diffusa (Maciocco, 2009, p. 105). 
 
La scarsa accessibilità ai servizi e la qualità mediocre delle prestazioni sanitarie, unitamente alla crisi economica del 1998, hanno contribuito a provocare una repentina discesa della speranza di vita della popolazione, aggravata dallo stress psicologico legato al grave disagio economico, ma anche alla perdita d’identità, alla disoccupazione, e al totale collasso delle reti di protezione sociale. Ciò ha indotto, soprattutto tra gli strati sociali meno istruiti, dei mutamenti negativi negli stili di vita, con una più alta incidenza delle malattie cardiovascolari e la diffusione dell’alcolismo. 
 
 
Le politiche sanitarie bielorusse
 
A seguito dell’indipendenza dall’Unione Sovietica raggiunta nel 1991, la Bielorussia ha goduto di una certa stabilità economica, grazie ad una campagna di riforme moderate, sostenuta anche dalle forniture energetiche a basso costo provenienti dalla Federazione Russa. Sul piano sanitario, il sistema ha mantenuto molti degli elementi che avevano caratterizzato il modello Semashko, con carenze, tuttavia, sul piano della governance, a causa della sostanziale mancanza di una definizione legale degli ambiti di competenza, nonché delle risorse disponibili e allocate alle autorità locali. Seppure, infatti, la responsabilità relativa all’erogazione dei servizi sanitari sia demandata localmente, spesso si aprono dei vuoti in termini di competenza e di capacità finanziaria, con conseguenti carenze sul piano operativo (UNDP, 2005). 
 
La percentuale della spesa sanitaria sul PIL bielorusso (5,6) è piuttosto contenuta anche rispetto agli altri Paesi membri della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e ancora lontana dalla media dei Paesi OCSE, pari a 8,8% nel 2019 (OECD, 2020)3.
È opportuno premettere che le ricerche sullo stato di salute della popolazione in Bielorussia non possono non tener conto del profondo impatto causato dall’incidente al reattore nucleare di Chernobyl, nel nord dell’Ucraina, avvenuto il 26 aprile 1986 e risultato il più grave nella storia. Negli anni successivi all’incidente sono stati avviati diversi programmi sanitari diretti a monitorare lo status di salute dei diversi gruppi coinvolti: i sopravvissuti alle radiazioni dirette, i cosiddetti “liquidatori”, chiamati a ripulire le scorie dell’esplosione, le popolazioni residenti nelle aree contaminate (WHO, 2006, pp. 115 ss.). Dispensari ad hoc sono stati creati per svolgere il duplice compito di raccogliere dati sulla morbilità e assistere i pazienti. 
 
Negli anni più recenti, in Bielorussia come in altri Paesi membri della CSI, si sono registrati una sensibile decrescita della fertilità e un aumento dei tassi di mortalità, dovuti soprattutto a malattie non trasmissibili (MNT), generalmente suddivise in quattro grandi gruppi: malattie cardiocircolatorie, tumori, malattie respiratorie (principalmente asma e bronco pneumopatia cronico ostruttiva), diabete. A queste, come conferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/WHO), è imputabile oltre il 70% dei casi di morte nel mondo e, più specificatamente, di circa 15 milioni di donne e uomini in età compresa tra i 30 e i 69 anni di età ogni anno (WHO, 2014). Costituendo una sfida notevole per tutti i Paesi del mondo, la loro drastica riduzione è stata integrata, come prevedibile, anche tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite4
 
Nell’ultimo decennio l’aspettativa di vita alla nascita in Bielorussia è aumentata di 4 anni, passando a 69 anni per gli uomini e a 79 per le donne nel 2018 (WHO, 2019). È ancora significativo, tuttavia, il divario esistente rispetto agli altri Paesi europei: 9 anni per gli uomini e 10 per le donne (WHO, 2019). Il fumo appare uno dei determinanti sociali della salute più significativi, soprattutto per le donne, tra le quali, negli ultimi vent’anni, il consumo si è triplicato fino a raggiungere il 12% nel 2017. Il consumo di alcol, invece, altro problema preoccupante per la salute pubblica, è sceso significativamente negli ultimi cinque anni, ma ancora merita piena attenzione. Altri fattori di rischio legati alla mortalità per MNT sono una dieta sbilanciata (uso di sale in eccesso) e la scarsa attività fisica (WHO, 2019). Più recentemente è stata promossa una stretta collaborazione intersettoriale per promuovere la salute a livello nazionale. In questo contesto, sono state introdotte severe misure legislative contro il fumo, la cui efficacia potrà essere valutata solo nel prossimo futuro. 
 
Riguardo all’impatto sulla popolazione delle malattie trasmissibili (MT), secondo i dati a disposizione (WHO, 2019), è ancora alta in Bielorussia l’incidenza del virus HIV e della tubercolosi. Obiettivo principale delle più recenti politiche sanitarie bielorusse, in generale, è stato quello di colmare il divario assistenziale tra le campagne e le città, assicurando maggiore equità nella distribuzione dei servizi sanitari e trasferendo risorse finanziarie dal settore ospedaliero alle cure primarie, come promosso dall’OMS in più occasioni e, in particolare, ad Astana, nel corso della Conferenza Globale dedicata a questo tema (WHO, 2018). 
 
 
La risposta alla pandemia di COVID-19
 
L’OECD (2020) riporta che durante la prima fase della pandemia di COVID-19, l'impatto della crisi sanitaria sulla salute pubblica nei sei Paesi partner orientali (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina) si è rivelato più ridotto rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale. La limitata mobilità intra-regionale ha contribuito inizialmente a contenere la diffusione del virus. 
 
Nei mesi compresi tra marzo e dicembre 2020 il governo bielorusso ha introdotto lievi restrizioni e misure di allontanamento fisico, pur non precludendosi l’eventuale applicazione di norme più severe di fronte ad un repentino peggioramento della situazione (HSRM, 2020)5. È stato richiesto l'isolamento sociale solo per chi era affetto dal virus, per coloro che avevano avuto un contatto con un caso di positività accertato, o erano di ritorno da un’area geografica con un’alta diffusione del virus, anche se asintomatici. Il Ministero della Salute ha emanato restrizioni per vietare le visite non essenziali e i raduni di massa, nonché raccomandazioni sull’uso dei trasporti pubblici e sui contatti ravvicinati con persone particolarmente vulnerabili (anziani, persone affette da malattie croniche, donne in stato di gravidanza). L’utilizzo di mascherine protettive è stato reso obbligatorio per tutti coloro che lavoravano nei servizi sociali, gli impiegati degli uffici postali e i volontari che a diverso titolo fornivano prestazioni a domicilio. Limitazioni sono state imposte anche allo svolgimento di eventi culturali, sportivi e scientifici con partecipazione internazionale. Nello stesso periodo il governo ha anche elaborato delle misure ad hoc per potenziare i trasporti pubblici e aumentarne la frequenza, rivedendo i programmi scolastici, e cercando di contenere così il sovraffollamento durante le ore di punta, almeno nelle città. Le ferrovie bielorusse hanno introdotto nuovi piani per assegnare posti a sedere a bordo dei treni, con spazi sedili riservati ai passeggeri, per mantenere la necessaria distanza fisica negli scompartimenti. 
 
Nell’aprile 2020, in considerazione dell’aumento dei contagi, la città di Minsk decideva di introdurre più severe misure di contenimento, incluso il divieto di partecipazione ad eventi pubblici, accompagnate da sanzioni amministrative in caso di violazione. Si sono tenute, tuttavia, le elezioni programmate per il 9 agosto 2020 e in quella occasione il Ministero della Salute ha emanato delle raccomandazioni specifiche. Il distanziamento sociale è stato imposto fino alla fine dell’anno 2020, unitamente all’utilizzo dei dispositivi di protezione. 
 
 
La tutela della salute dopo la pandemia
 
Nell’ottobre 2020 la Bielorussia ha iniziato i propri test vaccinali contro il COVID-19 utilizzando il siero Sputnik V sviluppato in Russia, e avviando la vaccinazione di massa nel dicembre 2020, privilegiando il personale medico e quello a contatto diretto con gli ammalati COVID (AP News, 2020). Nel marzo 2021 si è iniziato ad utilizzare anche il vaccino cinese prodotto da Sinopharm, come pubblicamente annunciato dal Ministro della Sanità, Dmitry Pinevich. Al momento di andare in stampa Johns Hopkins University (2021) riportava che fossero stati amministrati in Bielorussia 924.926 vaccini, con 313.938 persone che avevano completato il ciclo vaccinale ed una copertura nazionale raggiunta del 3,32%. 
 
Sul piano internazionale, l’Unione Europea e l’Ufficio regionale dell’OMS per l’Europa, come dichiarato più volte, intendono lavorare insieme per sostenere la diffusione dei vaccini COVID-19 e la vaccinazione nei sei Paesi del Partenariato orientale, tra cui la Bielorussia. A tal fine, UE e OMS hanno stanziato un budget di 40 milioni di euro in tre anni – l’azione congiunta UE-OMS più consistente mai realizzata nella Regione Europea – che dovrebbe sostenere iniziative di solidarietà globale e regionale, per poter garantire un più esteso accesso ai vaccini nei Paesi coinvolti (WHO Europe, 2021). Tra queste iniziative va menzionata certamente quella relativa al COVAX Facility, co-guidata dall’OMS, per favorire la distribuzione equa dei vaccini e rafforzare i sistemi di immunizzazione nei singoli Paesi del Partenariato, come ribadito anche in occasione del recente Global Health Summit svoltosi a Roma il 21 maggio 2021. Accanto agli sforzi distributivi del progetto COVAX, sarà importante rafforzare anche all’interno del Partenariato le capacità di sviluppo e di produzione del siero, a livello locale e regionale. 
 
Gli sforzi contro la pandemia non possono, tuttavia, essere oggetto esclusivo di attenzione delle politiche sanitarie bielorusse. Come menzionato, la sfida presentata da altre MT nel Paese è ancora viva e urgente. In particolare, la lotta contro la diffusione della tubercolosi richiederà lo sforzo coordinato delle istituzioni politiche e civili operanti in diversi settori della società. Anche le MNT rappresentano una minaccia significativa, sia per la salute della popolazione che per lo sviluppo economico della Bielorussia. Un Rapporto stilato nel 2018 dall’Ufficio regionale europeo dell’OMS ha quantificato l’onere economico delle MNT per il Paese, tanto in termini di costi diretti, ovvero legati all’aumento delle spese sociosanitarie e di sostegno al welfare, quanto in termini di costi indiretti, riconducibili al crescente tasso di assenteismo dal lavoro e alla riduzione della produttività del personale. Il Rapporto in questione stima una spesa nel 2015 di circa 3,3 trilioni di rubli bielorussi per il trattamento di quattro principali MNT: malattie cardiovascolari, malattie metaboliche e del sistema endocrino, malattie respiratorie croniche (WHO Europe, 2018, pp. 24 s.).
 
Sarà, quindi, importante per la Bielorussia continuare a rafforzare la legislazione di controllo sull’uso del tabacco, in particolare negli ambienti pubblici dove esistono già dei divieti, imponendo restrizioni sui prezzi e limitando le possibilità di accesso dei più giovani. Le stesse misure restrittive dovrebbero essere adottate in relazione all’uso dell’alcol, alla riduzione del consumo di sale nell’alimentazione, alla promozione di una dieta sana e dell’esercizio fisico. 
 
In conclusione, con uno sguardo al futuro, oltre all’implementazione di misure idonee a contrastare la corrente pandemia, in linea con le indicazioni dell’OMS, nel medio-lungo periodo anche la Bielorussia sarà chiamata a prendere decisioni strategiche per la tutela della salute, bene pubblico fondamentale per il benessere sociale. 
 
In tale prospettiva, tuttavia, è bene fare due premesse generali sui sistemi di welfare sanitario, che appaiono particolarmente significative in vista di eventuali riforme del sistema bielorusso. La prima è che gli attori che operano nell’ambito dei welfare nazionali sono molteplici (Saraceno, 2021, p. 5). Più soggetti, infatti, concorrono a favorire il benessere dei membri della società e ciò è ancor più vero in una società globalizzata, in cui le relazioni di dipendenza e interdipendenza si fanno più forti e più complesse. Tradizionalmente è stata utilizzata l’immagine del diamante per identificare i diversi soggetti coinvolti nella produzione di welfare: lo stato, il mercato, la famiglia, e il variegato mondo del terzo settore, che è parte integrante della società civile.
 
In tale scenario, mantengono sempre un ruolo di rilievo le politiche pubbliche, soprattutto in ambito sanitario. Nel corso della recente pandemia, queste hanno garantito in molti Paesi l’accesso ai vaccini e la tutela prioritaria dei soggetti più fragili, stabilendo i criteri di priorità per la loro distribuzione. Inoltre, esse sono essenziali per delineare un quadro legislativo che permetta ai diversi soggetti di cui sopra di operare in maniera collaborativa e nel rispetto del principio di sussidiarietà. 
 
Lo stato, pertanto, dovrà continuare a svolgere un ruolo cruciale nel garantire sia la tutela della popolazione vulnerabile, sia l’implementazione di quelle linee guida fondamentali formulate a livello internazionale per assicurare la protezione della salute globale della popolazione, oggi esemplificate almeno in parte dai già citati SDGs dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. 
 
La seconda premessa, strettamente legata alla prima, è che, in questo processo di profonda trasformazione, i welfare nazionali stanno diventando sempre più permeabili ai propri confini: ai flussi di persone e capitali, ma anche a suggerimenti, sollecitazioni, imposizioni degli organismi sovranazionali, che ne complicano la governance (Saraceno, p. 142). Alcuni, tuttavia, mantengono un più alto livello di permeabilità e, in alcuni casi, ciò può essere di ostacolo alla riduzione delle disuguaglianze, nonché all’attuazione di politiche più collaborative e coordinate sul piano internazionale, informate da valori condivisi. Certo è che le politiche sanitarie oggi, essenziali per lo sviluppo del benessere sociale, richiedono tale coordinamento per poter essere efficaci, soprattutto di fronte a tendenze epidemiologiche che sembrano indicare una maggiore frequenza delle pandemie. Inoltre, le politiche sanitarie, come le altre politiche sociali dirette ad incrementare il welfare e, dunque, lo “stare bene” dei cittadini (Saraceno, p. 5), chiamano in causa direttamente la tutela pubblica dei diritti della persona. 
 
Alla luce di queste due premesse, per superare i retaggi strutturali del modello Semashko ed adeguarsi alle esigenze dei moderni “sistemi di salute” (WHO, 2000, p. 5), la Bielorussia dovrà riformare il proprio sistema sanitario, per orientarlo al raggiungimento di quelli che vengono considerati tre obiettivi fondamentali: a) migliorare la salute della sua popolazione, b) rispondere anche alle aspettative non mediche che ne derivano per le persone, c) continuare a fornire protezione finanziaria contro i costi legati alle malattie (Missoni, Pacileo, 2016, p. 181). Questi tre obiettivi appaiono coerenti con la definizione di salute elaborata dall’OMS già nel 1946, quale stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto come mera assenza di malattia o di infermità (Grad, 2002, p. 981). Si tratta evidentemente di un concetto esteso ed inclusivo di varie dimensioni della vita umana, che supera il modello “biomedico” della salute in favore del modello “sociale” (Blaxter, 2004, pp. 11-19). Dal punto di vista personalista, i due modelli sono piuttosto “integrati” all’interno di una visione della salute umana che include più dimensioni relative alla natura ontologica unitaria della persona, nella sua realtà esistenziale di anima-forma e corpo-materia (Sgreccia, 2007, pp. 148-155). Tali dimensioni riguardano tanto la sfera individuale organica, psichica e spirituale, quanto la sfera ecologico-sociale ed etica, direttamente riconducibile al contesto in cui si svolge la vita comune. 
 
In questo senso, la salute umana rinvia ad una nozione complessa ed “integrale”, che coinvolge pienamente anche le condizioni di partecipazione della persona all’interno dei citati sistemi organizzativi in cui concretamente si svolge la sua esistenza quotidiana: stato, mercato, famiglia e società civile6. È importante osservare, infatti, che questi sistemi interdipendenti sono chiamati a mediare costantemente il rapporto degli individui con la natura circostante per la soddisfazione di bisogni di varia natura. 
 
In generale, è facilmente immaginabile che vi siano dei trade-off tra sistema politico, economico e sociale, affinché vengano fornite le infrastrutture, i servizi, le norme e i contesti adeguati e necessari a rendere disponibili e usufruibili sia i beni materiali, che i beni immateriali, inclusa la salute e l’accesso alle cure. Ciò implica, inevitabilmente, delle scelte di natura etica, oltre che di politica sanitaria. 
 
Recentemente, la Bielorussia è stata inclusa tra i Paesi del board esecutivo dell’OMS, dunque tra quelli chiamati a definire l’agenda dell’Organizzazione stessa e ad applicarne le strategie (WSJ, 2021). Questa decisione fa presupporre che anche la Bielorussia debba sostenere appieno un concetto di ‘salute’ più ampio, coerente con quello definito dall’OMS nella sua Costituzione. Tale concetto, anche grazie all’apporto di importanti economisti come il Premio Nobel Amartya Sen, oggi implica l’ampliamento delle cosiddette «basi informative» del welfare, con cui «i diversi soggetti-agenti si muovono nel prendere le proprie decisioni ed effettuare le proprie scelte» (Marzano, 2011, p. 207). È necessario, cioè, estendere i criteri per la misurazione del welfare al di là del mero reddito, includendo in esso, oltre ai tradizionali beni “materiali” legati al profitto e ai servizi, anche altri beni “immateriali” essenziali e socialmente rilevanti, tra cui la salute, ma anche i diritti e le libertà individuali attorno a cui si strutturano i sistemi interdipendenti di cui sopra. 
 
La Bielorussia non potrà non confrontarsi con quei “conflitti di interessi” che costituiscono «una situazione di rischio presente molto diffusamente nel settore della tutela della salute» (Dirindin, Caruso, 2019, p. 168). In ambito sanitario, infatti, è bene riconoscere che sempre si sviluppa «una fitta rete di relazioni» tra molteplici soggetti portatori di interessi spesso, almeno in parte, anche divergenti: medici, pazienti, aziende farmaceutiche, decisori (Dirindin, Caruso, p. 168). Il raggiungimento primario del mantenimento o miglioramento della salute individuale e collettiva può facilmente intrecciarsi con obiettivi di diversa natura, politica, economica e commerciale, di gratificazione personale o avanzamento professionale. Il livello di consapevolezza circa l’esistenza di questi conflitti è il primo passo per poter elaborare strategie di contenimento degli stessi. La collaborazione internazionale “esterna” richiesta per la tutela della salute, resasi particolarmente evidente con la recente pandemia, ma egualmente necessaria per portare avanti le strategie di implementazione degli SDGs, esige una corrispondenza “interna”. Una maggiore esposizione al rischio dei conflitti d’interesse in ambito sanitario, infatti, non solo provoca perdite in termini economici e di efficacia nel tutelare la salute dei cittadini, sottraendo risorse alle cure, ma induce anche perdite di natura sociale (Dirindin, Caruso, p. 172). 
 
La crescente attitudine collaborativa tra Paesi e istituzioni, la sperimentazione di nuove forme di partenariato pubblico-privato che recentemente si sono concretizzate nell’ambito della produzione e della distribuzione dei vaccini contro il COVID-19, esigono un generale rafforzamento di quella «alleanza terapeutica» che dovrebbe riequilibrare l’asimmetria informativa tipica delle relazioni paziente-medico e paziente-istituzioni in campo sanitario (D’Agostino, Palazzani, 2007, p. 124). Per questo è necessaria una maggiore trasparenza informativa, condizione essenziale per promuovere la prevenzione e l’impegno di ogni cittadino a «considerare la propria vita e quella altrui come un bene non soltanto personale, ma anche sociale» (Sgreccia, 2019, p. 235), proteggendo pure il consenso informato del paziente, al quale viene riconosciuta la libertà di scelta, anche nella condizione di vulnerabilità aggravata dalla malattia. 
 
Salute, diritti e libertà si presentano, dunque, intrinsecamente connessi e ancor più correlati alla luce della definizione estesa di salute promossa dall’OMS fin dalla sua istituzione. La Bielorussia si trova ora di fronte ad un bivio estremamente delicato, chiamata ad assumere un ruolo decisionale a livello internazionale in materia sanitaria, in un momento difficile della sua storia. Il futuro proverà se le sue istituzioni saranno in grado di sostenere questa sfida radicale, non solo nel periodo post-pandemico, al fine di assicurare ai propri cittadini un livello di welfare adeguato, che includa gli elementi materiali ed immateriali necessari a garantire la salute “integrale” della persona. 
 
 
Raffaella Petrini
 
 
 
Fonti e riferimenti bibliografici
 
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NOTE:
 
1 Nikolay Semashko (1874-1949), medico e professore di Igiene sociale, membro dell’Accademia delle Scienze mediche, fu nominato commissario del popolo per la sanità pubblica nel 1918 ed è considerato uno dei maggiori ispiratori delle riforme sanitarie in URSS.
2 La Bielorussia ha il numero più elevato di posti letto ospedalieri pro capite tra i Paesi della CSI e dell'Europa centrale e orientale.
3 La Comunità degli Stati Indipendenti identifica l’organizzazione internazionale di cooperazione economica, politica e militare, costituitasi nel 1991 a seguito scioglimento dell’URSS. Comprende attualmente Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Federazione Russa, Uzbekistan.
4 L’OMS ha riconosciuto al governo bielorusso di aver assunto un ruolo di leadership nella regione, soprattutto con riguardo alla promozione degli SDGs, attraverso l’integrazione dei relativi indicatori nelle politiche sanitarie nazionali (WHO, 2019). Il governo ha nominato un Coordinatore nazionale per gli SDGs ed è stato istituito un Consiglio nazionale per lo sviluppo sostenibile. 
5 Il COVID-19 Health System Response Monitor è un’iniziativa congiunta promossa dall’Ufficio Regionale per l'Europa
dell’OMS, la Commissione europea e l’Osservatorio europeo sui Sistemi sanitari e sulle Politiche sanitarie, al fine di raccogliere ed organizzare i dati correnti sulle politiche avviate nei diversi Paesi per affrontare la pandemia, in particolare relativi alle risposte dei vari sistemi sanitari e alle iniziative attuate a tutela della salute pubblica. 
6 La società civile, con i suoi corpi intermedi – soggetti educativi, culturali, religiosi, accanto alla cellula fondamentale di base che è la famiglia – è preposta a garantire tutte quelle condizioni necessarie affinché l’uomo possa vivere la sua dimensione relazionale e affettiva, potendosi così realizzare pienamente fino a giungere al suo senso ultimo. Al mercato, invece, nello scambio efficiente e nella produzione efficace di beni e servizi spetta fornire tutto ciò che è fisiologicamente necessario alla vita nella sua quotidianità (es. alimenti, abbigliamento, trasporti). Lo stato, infine, è tradizionalmente preposto a garantire la sicurezza, deputato all’ordine interno e alla difesa dalle minacce esterne.

 

troiani

pdfNella tradizione europea cristiana circola, già prima dell’umanitarismo socialista arcaico, la convinzione che allo stato spetti l’obbligo di attrezzare una qualche forma di assistenza che tuteli i più indigenti (poveri, disoccupati) e fragili (bambini, vecchi, malati). Quando compare il marxismo, il dibattito sullo stato sociale e le politiche di sostegno alle fasce sfavorite della popolazione, si allarga agli ambiti di pensiero e azione politica ispirati alle idee di Karl Marx, sui due fronti che ne sono storicamente scaturiti: il rivoluzionario e il riformista. Nel pensiero di Marx, che le élite bolsceviche, fondatrici dei soviet e quindi dello stato dei soviet, dichiararono ispiratore della costruzione sovietica, il welfare non è elemento utile al successo della strategia disegnata nella cospirazione contro lo stato borghese. Lo “spettro che s’aggira per l’Europa”, il comunismo, non ha il compito di migliorare le condizioni dei proletari e dei lavoratori all’interno del sistema vigente, che va abbattuto, non riformato.

Coerentemente con i presupposti, il pensiero marxista e i partiti comunisti aderenti al Comintern e poi al Cominform, boicottano ovunque le politiche di welfare, definendo socialtraditori i partiti del riformismo socialista che le inseriscono nell’agenda politica dei paesi nei quali operano. Nel costruendo stato previsto dalla rivoluzione bolscevica, la dittatura operaia avrebbe risolto strutturalmente la questione delle politiche di sostegno al mondo del lavoro e ai meno favoriti, con un paradosso riassumibile nella formula: non si fa stato sociale, quando si è Stato sociale.

 

Il welfare del socialismo reale fino alla guerra mondiale

In barba alla lezione di Marx sull’economia come fattore di struttura, nell’Unione Sovietica di Lenin e del primo Stalin, si nega il ruolo delle imprese (è lo stato, cioè la politica, a fare impresa), ma anche del sociale: nel regime dove lo stato è padrone esclusivo dell’economia, lavoro e lavoratori assumono altra natura rispetto a quella che viene loro attribuita nell’economia capitalistica. Si adottano politiche di assistenzialismo e premi di produzione che premiano chi eccelle nelle competizioni di produttività (provvede il sindacato cinghia di trasmissione) e ortodossia politica (provvede il partito, guardiano della verità). Le poche misure sociali, introdotte in modo saltuario, riguardano specifiche categorie, da fidelizzare a seconda del barometro politico e delle necessità del momento: operai, ceto cittadino, quadri di partito o intellettuali pubblici. Artigiani, contadini, piccoli commercianti ne sono in genere esclusi. Si tratta di meccanismi politici a fini di consenso, non di stato sociale fissato dal diritto, anche se in talune fasi si hanno forme di welfare assimilabili a quelle praticate nell’occidente europeo.

È la natura dello stato sovietico a spiegare comportamenti che sembrano in contraddizione con le pretese ideologiche che l’hanno generato. Secondo economisti della peretrojka di Gorbachev, l’URSS ha espresso un’“economia di caserma” o “di comando” al servizio di un complesso militar-industriale che assorbiva in alcune fasi topiche della guerra fredda fino al 60% dell’economia complessiva, tagliando alla fonte la capacità di intervenire sui bisogni della popolazione, anche di quelli legati a salute e benessere (Aganbegyan, 1990).

Anche quando dalla decretazione d’urgenza dei primi tempi del potere bolscevico, si arrivò alla compilazione di “Codici” (del lavoro e della terra, ma anche della famiglia) formalmente molto avanzati, questi non avrebbero trovato capacità di applicazione. Già la carta costituzionale del 1918, smentiva ogni aspettativa di politiche sociali, escludendole dal testo. Il lavoro, elemento centrale di ogni welfare state, vi era rappresentato non come diritto ma come dovere. Al capitolo II, 3 f) si prevedeva: «Al fine di sterminare gli strati parassitari della società e di organizzare l’economia, viene istituito il servizio generale obbligatorio del lavoro». Il punto g) precisava: «Allo scopo di assicurare alle masse lavoratrici la totalità del potere e di eliminare qualsiasi possibilità di restaurazione del potere degli sfruttatori, viene decretato l’armamento dei lavoratori, la formazione di un’Armata Rossa Socialista degli operai e dei contadini e il disarmo completo delle classi possidenti». Militarizzazione senza diritti sociali quindi, con i bisogni del lavoratore subordinati a quelli dello stato.

Più avanti, gli effetti degli squilibri e dei colli di bottiglia generati da militarizzazione e piani quinquennali, ricadranno sui consumi privati e familiari, e sui beni sociali, politiche del welfare in primo luogo. Il fenomeno si aggraverà in taluni periodi, per difficoltà di carattere climatico (agricoltura) o lotte di potere (transizione post-staliniana) arrivando ai livelli drammatici degli anni della stagnazione brezneviana e del disfacimento dell’Unione. Il tempo d’anarchia che fa seguito allo scioglimento dell’URSS, nel dicembre 1991, con la fine della presidenza sovietica di Gorbachev e l’avvio della transizione al mercato da parte di Borís Nikoláevič Él'cin, saranno davvero pesanti in termini di welfare.

In minore sofferenza, nel corso dei decenni sovietici - non guardando per ora agli anni delle purghe staliniane, dove tutto si confonde nel segno dell’indecifrabile logica del dittatore – i segmenti di popolazione che convergevano sull’apparato di polizia e di sicurezza. Le garanzie retributive e di welfare dei due gruppi, ai quali si aggiungevano talune glorie di partito come artisti o scienziati, trovavano riscontro nell’elaborazione dei piani quinquennali. Dopo la parentesi NEP, la Nuova politica economica lanciata nel 1921 da Lenin, si costruirà una società che è stata definita “paracastale” (Sorba, 2002, p. 124), puntata sui privilegi di pochi e sulle ambizioni di potenza dello stato che una popolazione povera e sfruttata era chiamata a realizzare. Luciano Magrini, testimone della nascita dell’URSS, così sintetizzò il tragico risultato di quell’opera: «si voleva giungere alla proletarizzazione del contadino e si è conseguito il risultato opposto: si è contadinizzato il proletario» (Magrini 1920, pp. 111-112).

Quando passa ad analizzare le cure adottate dal partito per rispondere a una crisi già allora devastante, Magrini parla di “militarizzazione” della mano d’opera, utilizzando, curiosamente, gli stessi termini che saranno ripresi settant’anni dopo, dagli economisti della perestrojka: «il comitato centrale del partito comunista ha accettato una serie di provvedimenti destinati ad imprigionare il lavoro nella militarizzazione. Così … la Russia viene trasformata in una grande caserma» (Magrini, p. 125).

Su quel primo periodo della storia sociale sovietica, realizza approfondita analisi Dorena Caroli, coprendo gli anni 1917-1939. All’indomani della presa del potere bolscevico, «la rete delle casse previdenziali territoriali introdusse un sistema … che copriva anche le famiglie dei lavoratori e che fu caratterizzato dalla progressiva centralizzazione di una parte dei fondi previdenziali» (Caroli, 2015, p. 25). Nei primi anni trenta, si optò per un sistema che spostava le prestazioni previdenziali e sociali dentro l’organizzazione aziendale, spacchettando in una miriade di Unioni professionali i sindacati, anche per gli aspetti della gestione previdenziale. Per decreto del luglio 1933, il comitato di fabbrica e industria iniziò a funzionare anche come centro di pagamento dell’assicurazione sociale. Permaneva il meccanismo adottato nella prima fase del potere bolscevico, quando si era scelto di attribuire privilegi specifici ai pochi operai specializzati che potevano far ripartire la macchina della produzione bloccata dalla guerra. Lo stato dell’utopia comunista aveva aderito a un sistema previdenziale di tipo corporativo, riguardante i settori produttivi strategici e riservato di fatto ai soli livelli alti e specializzati di tecnici e classe operaia, facendo passare attraverso disposizioni amministrative e piccole riforme previdenziali l’allocazione di risorse per altri settori produttivi e i contadini poveri, misure poco pubblicizzate e ampiamente disattese, specie nella periferia.

All’interno di un sistema palesemente ingiusto si producevano fenomeni di marginalità e devianza sociale di una certa rilevanza, ai quali non si prestava molta attenzione1. I centri di riferimento delle politiche assistenziali e previdenziali allestite negli anni trenta (Direzione centrale dell’assicurazione sociale, Amministrazione principale dell’assicurazione sociale, Casse assicurative locali, istituti di sanità pubblica) non cambiarono la sostanza delle cose, essendo collocati dentro le strutture delle grandi aziende. Su tutto aleggiava la mano attiva dello stalinismo, con la marcia forzata verso l’industrializzazione pesante, attraverso un rivolgimento dell’economia che mai previde politiche sociali adeguate. Nei fatti erano sostituite dalla gestione triangolare partito industrie e sindacato, salvo che lo stato si riservava mutamenti di rotta repentini e arbitrari come quelli adottati durante la grande crisi innescata dal ’29 statunitense, letta a Mosca come l’ennesima operazione di accerchiamento capitalistico. Per sconfiggere in un decennio i paesi capitalisti, nel 1931 Stalin introdusse ovunque il salario a cottimo e ulteriori incentivi per l’autosfruttamento. Si era all’abbandono, anche in via ufficiale, dei principi previdenziali universali enunciati da Lenin, sostituiti da misure come: razionamento alimentare (dal 1928 al 1935), istituzione del passaporto per i trasferimenti interni (senza propiska – alla lettera “registrazione” – di residenza e permesso di soggiorno, non si poteva più traslocare), unione di Commissariato del popolo per il lavoro e Centrale sindacale nella gestione delle Casse assicurative (1933). Lo stato sociale in URSS alla fine del 1932, così trova descrizione: «Questa profonda degenerazione degli scopi dell’assicurazione sociale mostra che quest’ultima divenne un’arma di controllo capillare e di discriminazione spietata anziché uno strumento di solidarietà volto ad attutire i rischi sociali provenienti dal lavoro e dalle trasformazioni economiche» (Caroli, p. 177).

Le cose non vanno meglio dal lato dei diritti, a cominciare dal principio della libertà individuale di mutare impiego, fondamento di ogni legislazione lavorista, che viene negato, mentre al tempo stesso si ha accanimento verso lavoratori che si assentino dal lavoro senza giustificazione.

Dovendo colpire tutti e ovunque, Stalin colpì anche il lavoro, varando, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel 1938, leggi che ufficializzarono l’URSS come un immenso campo di concentramento lavorativo, con il sindacato decapitato al vertice e strozzato alla base2. Il welfare, in particolare la previdenza sociale, finisce nelle mani dei cosiddetti soviet della previdenza sociale. Nelle grandi fabbriche si costituiscono commissioni di reparto dell’assicurazione sociale (Caroli, p. 274).

Gli anni di guerra rafforzano la sindrome sovietica dell’accerchiamento capitalistico e, almeno in parte, motivano tre leggi fondamentali sul lavoro, nelle date 26 giugno, 2 ottobre e 19 ottobre 1940. Alcuni contenuti sono utili all’analisi sulla evoluzione dello stato sociale in Unione Sovietica, in particolare quanto previsto dalla legge del 2 ottobre sulle riserve di manodopera per l’industria statale, nel legame permanente tra scuola, occupazione e residenza. Ai cittadini si assegna uno status per via amministrativa, che, salvo rarissime eccezioni, non sarà possibile alterare per l’intera vita. La successiva normativa del 19 ottobre, riguardante il trasferimento per decisione amministrativa non si distacca dal filone repressivo: chi si opponesse alle tipologie di lavoro qualificato lì elencate (tessile, alimentare, elettrico, ferroviario), sarebbe passibile delle pene previste per i reati di abbandono del lavoro.

Gøsta Esping-Andersen (1990, pp. 26-29) evidenzierà come l’URSS, al di là di quanto dichiarava, manifestasse una natura fortemente conservatrice, adottando comportamenti non dissimili da quelli di regimi reazionari come regno d’Italia, Austria e Reich tedesco. E così milioni di lavoratori e operai, immiseriti dalla mancanza di lavoro, da retribuzioni e assegni sociali irrisori, annessi alla categoria degli antipartito, dei boicottatori del comunismo, dei sabotatori della patria e della sua economia; non finire nel gulag con milioni di altri sventurati era già un buon risultato in quella situazione.

 

Lo stato sociale sovietico dagli anni di guerra alla perestrojka

Alla morte di Stalin, nel 1953, le condizioni di vita della famiglia sovietica media erano peggiori di quelle di 25 anni prima. Nei decenni successivi i salari subiranno vari adeguamenti, purtroppo poco risolutivi sul benessere della popolazione anche perché, nei cicli economici messi in moto dai piani, all’accresciuta massa monetaria resa disponibile non corrispondeva un’adeguata offerta di beni e servizi di benessere e consumo, mentre si creavano mercati paralleli in valuta dove affluiva di tutto.

The peculiarity of this system was that even though the Soviet ideological principles of universal welfare protection and equal access to welfare services were not forgotten, they were obviously secondary to the drive of Soviet industrialisation. Guided by the logic of industrialisation, the government offered special privileges to certain groups of the population (Maltseva, 2012, p.110).

Molto, al welfare e più in generale al lavoro sovietico, era venuto dagli anni di Khrushchev, stimolato, più di Stalin, dai contenuti del rapporto Beveridge (Caroli, 2015, p. 38). Nelle riforme, di Kosygin e Breznev, cominceranno a praticarsi i principi dell’universalismo e dell’egalitarismo, alla base del piano di assicurazioni sociali presentato alla camera dei Lord dal liberale Beveridge. Quelle novità tenderanno a radicarsi negli ambienti popolari e di lavoro, creando aspettative che peseranno nel dopo comunismo. Si manifesta anche in URSS il fenomeno delle aspettative crescenti, caratteristica universale delle popolazioni nell’ultimo quarto del XX secolo. Nel 1977 la riforma costituzionale, che soppianta la costituzione staliniana del 1936, aggiunge, ai vigenti diritti al welfare, il diritto alla casa e all’accesso alla cultura. Si spiega anche con questo bisogno tutto politico del nuovo “scambio” tra domanda del regime (obbedienza, conformismo, acquiescenza) e sua offerta (sufficienza economica e stato sociale), il fatto che la società sovietica venisse aperta allo stato sociale da Khrushchev, con la fornitura, da parte dei soggetti pubblici, di una vasta gamma di servizi, impensabili in epoche precedenti: abitazioni popolari, pensioni minime, scolarizzazione e sanità gratuite e universali. In particolare i lavoratori dell’industria riterranno di godere, certamente più che nel passato, di un’adeguata rete di welfare. Nel 1956 è pubblicata la legge sulle pensioni che ne estende il diritto e rende minima la differenza di trattamento tra impiegati ed operai; nel 1964 la sicurezza sociale viene finalmente attribuita anche a chi lavora nelle aziende agricole collettivizzate, cominciando a rivedere una delle maggiori ingiustizie perpetrate dalla storia sovietica, quella verso i contadini e i lavoratori della terra. Nel 1967 a questi saranno dirette ulteriori misure di allineamento sociale, in particolare abbassando l’età di pensionamento (1967), consentendo il congedo pagato per ragioni di salute (1970), equiparando le regole per il pagamento delle pensioni (1971). Era come se comparisse, nel cosmo ideologico sovietico, la stella che illuminava la povertà e l’ingiustizia sociale. Il trentennio 1960-1980 può, a ragione, essere identificato come quello di maggiore impegno sovietico per la protezione sociale. Benefici andarono al sistema di istruzione e di sanità, alla cura della famiglia e dell’infanzia. Furono accresciuti i trasferimenti diretti agli indigenti, ai fragili. Lo stato iniziò a farsi carico dei disabili, dei marginali, dei mutilati (protesi e riabilitazione, sanatori, carrozzine e altri trasporti, appartamenti attrezzati). Il passaggio da “operaio sfruttato per la gloria dello stato” a cittadini con diritti, fu evidente.

E tuttavia quel welfare continuava ad essere ben inferiore, in termini assoluti e comparati, con il livello raggiunto nei paesi non comunisti, come evidenzia la seguente tabella (Kornai, 1992, p. 314). La spesa sociale sovietica, in termini percentuali sul Pil, è superata persino da quella statunitense, fanalino di coda tra i membri Ocse, per ciascuna delle tre voci individuate e per totale.

 

Spesa sociale: confronto fra 10 paesi, 1976 (consumi collettivi in % del Pil)

  Istruzione Salute Welfare Totale
Paesi socialisti  
Bulgaria 3,9 3,1 10,3 17,3
Cecoslovacchia 3,9 3,8 16,3 24,0
Rep. Dem. Tedesca 4,9 5,1 11,7 21,7
Ungheria 3,4 5,3 11,6 20,3
Polonia 3,2 3,3 7,1 13,6
URSS 3,7 2,6 9,3 15,6
Paesi OCSE  
Austria 4,6 4,6 21,1 30,3
Italia 5,0 6,1 14,8 25,9
USA 5,0 2,9 11,3 19,2
Germania 3,8 5,1 20,6 29,5

 

Nonostante il livello relativamente basso, le prestazioni dello stato sociale nell’area europea del socialismo realizzato non avrebbero trovato modo di poter essere garantite nella fase più accentuata del declino sovietico, e sarebbero diventate impensabili nel pieno della transizione alla società post-sovietica, in specie durante le privatizzazioni selvagge della presidenza di El’cin negli anni novanta.

Già con le riforme di Gorbachev, nella fase della transizione che porterà alla rottura del patto costituzionale e alla frantumazione del territorio sovietico in più repubbliche sovrane, si era avuta l’espulsione di personale sovrabbondante dai grandi complessi industriali. Mancherà, nella svolta non solo imprevista ma non preparata in quanto a risposte sociali, la necessaria tutela, con il risultato che la transizione delle repubbliche già sovietiche al mercato assumerà costi umani spaventosi. Si è calcolato che le retribuzioni salariali ancora nel 2000 si collocassero al 7,75% del minimo vitale (Caroli, 2015, p. 325), un livello che nei territori ex sovietici nessuno stato sociale sarebbe stato in grado di riposizionare se non con politiche di sussistenza e assistenziali in senso stretto.

Inevitabile che nei territori già sovietici, le classi di età e i ceti che erano stati investiti positivamente dallo stato sociale, rimpiangessero quelli che oggi possono apparire come “privilegi perduti”, con riferimento specifico a misure come il reddito minimo e le pensioni di vecchiaia, goduti da molti alla vigilia del coma di regime. I cittadini sovietici si erano accomodati in un sistema paternalistico di dignitosa povertà collettiva, che garantiva stabilità di reddito e capacità di programmare la propria vita individuale e familiare, tra istruzione pubblica, sicurezza del posto di lavoro, qualche privilegio (le vacanze e qualche viaggio, ad esempio, e le prime automobili private), la pensione.

Lukashenka in Bielorussia, Putin in Russia, hanno solidificato il consenso ponendolo in sintonia con l’antico metodo sovietico che promette potenza allo stato e livelli sufficienti di sicurezza sociale ai cittadini. Non casualmente i loro governi si comporteranno all’unisono nell’aggressione all’Ucraina del 2022.

La tabella elaborata da Linda J Cook (2007, p. 7) ha riassunto, attraverso la combinazione di due parametri (livello di liberalizzazione e sforzo di welfare), come siano andate le cose nel primo quindicennio di transizione, con un reciproco paragone che riguarda anche alcuni paesi chiavi delle privatizzazioni nel centro Europa.

 

Risultati contrastanti delle politiche di welfare nella transizione postcomunista (1990-2004)

Paesi Federazione Russa Polonia, Ungheria Kazakhstan Bielorussia
Risultati Liberalizzazione ritardata Liberalizzazione graduale Liberalizzazione rapida Nessuna liberalizzazione
  Sforzo di welfare basso Sforzo di welfare moderato Sforzo di welfare basso Sforzo di welfare moderato
 

 

Fonte: Cook, 2007, p. 6

 

Dal che si evidenzia come il migliore welfare tra i cinque, appartenga, in quella fase, al paese, la Bielorussia, che pur non avendo promosso liberalizzazioni, figura a pari merito con Polonia e Ungheria. Precisando come quelle situazioni si siano generate e quali settori se ne siano avvantaggiati nei rispettivi paesi, l’autrice costruisce un’esaustiva panoramica, dalla quale si estrae la tabella seguente, dedicata in particolare all’evoluzione, tra la fine dell’URSS e il 2002, di tre indizi di welfare: sanità, pensioni, istruzione.

 

Spesa pubblica 1990-2002, % Pil: salute, istruzione, pensioni

Paese Settore 1989-1992 1998 2002
Polonia Sanità 4,8 4,2 4,7
Istruzione 5,4 5,3 6
Pensioni 8,7 12,8 11,2
Ungheria Sanità 6,4 5,2 5,5
Istruzione 6,6 4,8 6
Pensioni 10,5 7,5 7,6
Russia Sanità 2,5 2,5 2,3
Istruzione 3,6 3,6 3,7
Pensioni 5,0 6,4 7,3
Kazakistan Sanità 4,4 3,5 2,0
Istruzione 4,0 - 3,0
Pensioni 8,2 - -
Bielorussia Sanità 5,3 5,6 5,0
  Istruzione 4,7 2,0 6,8
  Pensioni 5,4 7,7 -
  Fonte: rielaborazione da Cook, 2007, p. 211.



 

Giudicando il caso bielorusso, rispetto a quelli degli altri paesi in tabella, la ricercatrice scrive, evidenziando la debolezza della società rispetto al potere, e l’autonomia decisionale di questo:

La Bielorussia apparentemente contraddice la teoria che attribuisce rilevanza all’indirizzo politico, mantenendo uno stato sociale ampio e uno sforzo di welfare comparativamente forte a dispetto della debolezza dell’influenza della società (Cook, p. 8).

Il maggiore peso della figura presidenziale e della macchina burocratica, rimasti praticamente intatti e monolitici durante la transizione, avrebbe favorito un rendimento dello stato sociale più favorevole alla popolazione. Un’affermazione che trova conferma anche nei dati di seguito riportati, organizzati dall’autrice attraverso una serie di fonti. La Bielorussia aveva un tasso di povertà del 48% nel 1998, ridotto al 21% nel 20023. Per la stessa voce il Kazakistan nel 2002 era a 71%, la Russia al 41%, la Polonia al 27%, l’Ungheria al 12%. La disoccupazione in Bielorussia tra il 1998 e il 2002 era passata dal 2,3% al 3%; per la stessa voce il Kazakistan nel 2002 era al 9,3%, la Russia al 7,9%, la Polonia al 19,9%, l’Ungheria al 5,1%. (Cook, p. 194).

 

La condizione sociale in Bielorussia

Nel paragone con l’attuale Russia, risulta che la Bielorussia guadagna in termini di benessere materiale, ma condivide il conculcamento delle libertà personali e politiche4. In questo modo la repubblica quasi baltica e già sovietica, si aggiunge alle esperienze, tipicamente asiatiche, di regimi politici che hanno contribuito al benessere materiale dei cittadini pur continuando a privarli di libertà basilari. Interessante che il paese, secondo Banca Mondiale denunci un tasso di povertà (0,5%), comparabile con quelli della regione scandinava e nord europea, inferiore a quello di ogni paese post-comunista membro dell’UE, e a quello medio dell’UE che si attesta al 2,9% nel 2020. I servizi sociali e il welfare, anche per i non lavoratori come i pensionati e le famiglie, sarebbero di livello conseguente. Così l’assistenza ospedaliera. Una situazione che spiegherebbe l’affermazione di Vitali Silitski, già nel 2005 quando risultava ormai evidente la non modificabilità a breve termine, del sistema di potere strutturato da Alyaksandr Lukashenka:

The Belarusian leader’s authority is based not only on outright repression, however, but also on a fairly high level of popular backing. His flamboyant autocratic style finds favor with a vast constituency of rural and elderly voters still nostalgic for the communist era; [...]; and his economic policies provide for a fair degree of social cohesion (Silitski, p. 85).

Alla luce di questa constatazione, si pone la questione del rapporto tra stato del benessere inteso essenzialmente come benessere materiale e assicurazione contro il bisogno (disoccupazione, malattia, vecchiaia, etc.), e benessere come godimento anche delle libertà spirituali. Si dà soddisfazione ai diritti economici, sociali e culturali, diritti umani della seconda generazione, ma si negano quelli di prima generazione riguardanti i diritti civili e politici elaborati già nel XVII e XVIII secolo. Se i diritti di seconda generazione sono forniti dallo Stato e fanno parte per certi versi del suo spazio di autonomia decisionale, i primi no: appartengono agli esseri umani, sono inalienabili e difendono la libertà individuale contro le invadenze e gli eccessi del potere statale. Non casualmente sono chiamati “diritti libertà”: toccano l’eguaglianza di tutti davanti alla legge, la sicurezza personale, la protezione contro l’arbitrio, il diritto di proprietà privata, le libertà di fede e di opinione.
Un esempio di dove abbia condotto il metodo Lukashenka sta nel trattamento riservato ai sindacati. Nella prima fase della transizione sorsero forme di organizzazioni rappresentative e rivendicative dei lavoratori che si andarono a sommare alle strutture ufficiali esistenti: organizzarono le proteste e presentarono proposte dei ceti lavoratori, ma né le une né le altre ebbero lunga vita, finendo fuori legge. Il commento di Cook (2007, p. 206) è in linea con la tesi qui raccolta: «Benché abbia mantenuto un welfare state ampio, il governo bielorusso non negoziò con gli interessi sociali né modificò le spese sociali in risposta ai bisogni sociali». In Bielorussia dovrebbero essere rispettati e praticati ambedue le categorie di diritti.

 

Luigi Troiani

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

Aganbegyan Abel (1990), Verso una stabilità politico-economica in URSS, «Impresa&Stato», n. 12, pp. 22-24.
Caroli Dorena (2015), Un Welfare State senza benessere, Insegnanti, impiegati, operai e contadini nel sistema di previdenza sociale dell’Unione Sovietica (1917-1939), Macerata, Eum.
Chauvier Jean-Marie (1974), La condizione operaia nell’URSS, «Mondoperaio», XXVII, 1, pp. 67-105.
Cook Linda (2007), Postcommunist Welfare States, Reform Politics in Russia and Eastern Europe, Ithaca and London, Cornell University Press.
Esping-Andersen Gøsta (1990), Three Worlds of Welfare Capitalism, Cambridge, Polity Press.
Graziosi Andrea (2002), L’evoluzione dei “diritti sociali” in URSS (1917-1956), in Carlotta Sorba (a cura di), Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea. Atti del convegno annuale SISSCO (Padova, 2-3 dicembre 1999), Roma, Ministero per i Beni e le Attività culturali.
Kornai János (1992), The Socialist System: The Political Economy of Communism, Princeton, Princeton University Press.
Magrini Luciano (1920), Nella Russia bolscevica, Milano, Società Editoriale Italiana.
Maltseva Elena (2012), Welfare Reforms in Post-Soviet States: A Comparison of Social Benefits Reform in Russia and Kazakhstan, A thesis submitted for the Degree of Doctor of Philosophy, Department of Political Science University of Toronto.
Sierakowski Slawomir (2020), Belarus Uprising: The Making of a Revolution, «Journal of Democracy», XXXI, 4, pp. 5-16.
Silitski Vitali (2005), Preempting Democracy: The Case of Belarus, «Journal of Democracy», XVI, 4, pp. 83-97.

 

NOTE:

1 Crescendo abbandonata a sé stessa, l’infanzia si era trasformata in molte aree dell’Unione in bambini e adolescenti senza fissa dimora, proclivi a delinquere anche a scopo di sopravvivenza. «Si sparsero per il paese», né le riforme sociali colsero la natura del problema, producendo «un occultamento progressivo dei problemi sociali da parte del Partito Comunista che li fece scivolare lentamente dalla sfera della politica sociale a quella della politica penale» (Caroli, 2015, p. 26).
2 Gli anni ’30 sono il picco della ferocia staliniana anche in Bielorussia. Come in altre situazioni non si dispone di numeri esatti, ma si ritiene in genere che tra il 1917 e il 1953 il piccolo stato slavo abbia pagato al potere sovietico tra 600.000 e 1.400.000 vittime. Come l’Ucraina, la Bielorussi ha sofferto anche un alto numero di kulaki e loro famiglie, uccise o deportate in numero di almeno due centinaia di migliaia di persone.
3 In nota ai dati che fornisce, Cook precisa quanto segue. Per tasso di povertà s’intende la percentuale di popolazione sotto il $PPP, all’epoca $ 4,3 al giorno. I dati bielorussi sulla disoccupazione sono basati sulla disoccupazione ufficialmente registrata e non sono considerati comparabili a quelli di altri paesi.
4 Il Pil pro capite calcolato in PPP rispettivo è nel 2020, secondo Banca Mondiale, US$ 4.021,73 per la Russia e 19.759 per la Bielorussia. Nel confronto con il 2017 il tasso di crescita è superiore in Bielorussia: in quell’anno la Russia esprimeva valore 3.818,78 e la Bielorussia 18.287. Per un ulteriore, utile, confronto, si noti che il dato bielorusso corrisponde a più del doppio di quello riscontrabile in qualunque altro paese post-sovietico non appartenente alla UE. Ad esempio, è il doppio di quello ucraino, che si aggira intorno ai 10.000 dollari (Sierakowski, 2020). Per ogni eventuale ulteriore confronto, si acceda a https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.PCAP.PP.CD?locations=CN-IN.

casale 02

pdfIl mosaico politico sortito dalla dissoluzione dell’URSS è stato attraversato da percorsi riformistici diversificati, compresi quelli attinenti all’azione di rilevanza socioeconomica delle istituzioni pubbliche. Adottando un approccio comparativo, in quest’articolo si intendono selezionare talune variabili dello state-(re)building che appaiono dotate di una certa incidenza sul versante prestazionale dello sviluppo umano, muovendo dal grado di (dis)continuità rispetto al passato sovietico per poi analizzare la state capacity (o, specularmente, la state fragility) e il livello di democraticità dei regimi politici, con le possibili interazioni tra le grandezze osservate durante il periodo della transizione post-sovietica. La disamina intende ricavare elementi utili a decifrare altresì le strategie di legittimazione impiegate in quella peculiare fase di passaggio, includendo le politiche di welfare tra i fattori che concorrono a illustrare le caratteristiche contemporanee di diverse repubbliche dell’area, assumendo infine la Bielorussia come caso precipuo cui applicare le chiavi interpretative proposte nel presente contributo.

 

Continuità e cambiamento: la variabile del passato

Per cogliere talune peculiarità dell’attuale costellazione post-sovietica occorre osservare il modo cui, nella lunga transizione, si è configurata la relazione con le eredità del passato. Tutte le repubbliche post-sovietiche (RPS) hanno dovuto misurarsi con un abbrivio comune, rappresentato dagli assetti sistemici dell’URSS: sufficientemente innervati da non consentire di pensare, a rigore, tutte le specie di state-building attivate nell’area nei termini di una creatio ex nihilo. La sfida immediatamente posta dal collasso del 1991 è coincisa con il vuoto lasciato dal Partito comunista, cabina di regia onnipervasiva del sistema. Ciò ha da subito evidenziato i costi del cambiamento, posto che le incertezze e gli squilibri cui espongono i processi di riconversione comportano non poche volte crisi transizionali non congrue alle aspettative sociali di stabilità e benessere, con il rischio di propiziare deviazioni o ritorni al passato.

In effetti, nella galassia post-sovietica, l’ottimismo per uno state-(re)building immediatamente innestato nello spazio aperto del libero mercato ha dovuto fronteggiare importanti contraccolpi senza le garanzie istituzionali e le protezioni sociali invece disponibili ai sistemi consolidati e già conformi ai canoni del capitalismo liberaldemocratico. Le criticità di esordio, in diversi casi, hanno prodotto brusche inversioni di marcia rispetto ai primi tracciati riformistici, specialmente laddove la società civile, a dispetto dell’euforia “fondativa”, è stata scarsamente coinvolta dalla classe dirigente, attestata su posizioni autoreferenziali e di prona adesione alle formule occidentali, comunque inidonee alla riformulazione del “contratto sociale” autoctono.

Per altro verso, l’assuefazione al dirigismo sovietico assorbito dai gruppi sociali, dagli apparati pubblici e nel sistema economico si è mostrata una componente culturale sufficientemente “dura” da contrastare, con potente forza inerziale (path-dependence), l’efficacia dei modelli importati da Ovest (Magyar, Madlovics, 2020). Ma non ovunque. Il retaggio del passato non ha prodotto effetti inibitori o devianti sulla transizione delle repubbliche baltiche. Similmente a quanto avvenuto negli ex satelliti dell’Europa orientale, in esse il sentimento identitario nazionale, in sinergia con la refrattarietà recondita alla (tardiva) sovietizzazione, si è conservato sino ad agire come propulsore della democratizzazione: colta come opportunità decisiva per valorizzare un’indipendenza voluta, anziché semplicemente occorsa e passivamente “ricevuta” dall’implosione del socialismo reale.

 

Stato, regime politico e sviluppo umano

Stanti tali premesse, per esaminare il quadro delle diversità con cui la transizione si è articolata sul piano dell’incidenza dell’azione istituzionale dello Stato sulla società, riteniamo opportuno distinguere e porre in relazione diverse grandezze strutturali. Tra esse, senza pretese di esaustività, riteniamo proficuo assumere la variabile della state capacity in quanto sinteticamente rappresentativa dell’attitudine delle istituzioni pubbliche ad assolvere alle proprie funzioni. In essa si riverbera anche la ricchezza nazionale, quantunque essa non spieghi tutto, giacché, oltre una certa soglia, la state capacity può non rispondere in maniera elastica alle variazioni del PIL. Ciò mostra quanto rilevino, assieme alle risorse, le strategie della direzione politica, la cultura amministrativa e, in genere, le componenti strutturalfunzionali dell’apparato statuale in ordine alle attività regolative e disciplinari, estrattive e distributive di beni e servizi. Nella gran messe di indici che in proposito continuano a essere elaborati, optiamo per lo State Fragility Index (SFI) del Center for Systemic Peace che, con i suoi 14 indicatori, esplora l’effettività prestazionale (output) delle istituzioni nei campi della sovranità, della stabilità politica, dell’ordine pubblico e della repressione del crimine, della regolarità dell’azione amministrativa, della coerenza delle politiche economiche e sociali, della gestione dei servizi, ecc. (Marshall, Elzinga-Marshall, 2017).

Un’ulteriore dimensione di analisi, particolarmente saliente con riguardo all’oggetto di nostro interesse, è rappresentata dalla natura del regime politico. Se con la precedente variabile osserviamo, in riferimento alla statualità, la struttura permanente dell’autorità costituita nel suo effettivo esercizio entro un preciso territorio, valutando il regime ci riferiamo alle forme e ai modi del potere politico (e l’accesso a esso), assieme alla definizione delle possibilità di decisione e di azione da parte degli attori presenti nella sua orbita. Il che implica principi, valori e scopi per mezzo dei quali i rapporti di obbligazione politica tra governanti e governati assumono fattiva connotazione.

In proposito, assumiamo la macrodistinzione tra regimi liberaldemocratici e regimi non democratici, sulla base di criteri relativi al pluralismo concorrenziale e poliarchico, alla contestabilità del potere e all’inclusività basata sulla garanzia e sulla promozione di diritti di libertà e di eguaglianza. In virtù dell’accountability verticale tra classe di governo e cittadini e di quella orizzontale tra le istituzioni collocate in un sistema di checks and balances, la formula liberaldemocratica, nella letteratura politologica occidentale, viene usualmente ritenuta di per sé idonea a procurare un rendimento sistemico teso a soddisfare bisogni collettivi e individuali. Gli impianti liberaldemocratici, infatti, si rendono costitutivamente responsivi rispetto alle domande sociali, aggregate e articolate secondo modalità concorrenziali comunque regolate, grazie alle garanzie giuridiche (rule of law), da criteri di pari opportunità, da cui risulterebbe in esito un equilibrio omeostatico che tende a ostacolare la cristallizzazione di centri di interesse assolutamente predominanti (Dahl, 1971). Più in generale, un regime liberaldemocratico, trasparenza, concorrenzialità e contestabilità responsabilizzano il decisore politico rispetto al rendimento delle prestazioni delle istituzioni, remunerate dal consenso necessario a governare.

Sulla base di tali assunti, al fine di classificare i regimi politici post-sovietici durante la transizione, scegliamo l’indice sintetico della qualità liberaldemocratica (LDI) del V-Dem Institute dell’Università di Göteborg, basato su 71 indicatori attinenti alla dimensione libera e competitiva delle elezioni, ai diritti politici collegati in chiave pluralistica, nonché alle libertà civili, al rule of law e all’accountability (Coppedge et alii, 2020).

Dunque, poste la state capacity (ricavata specularmente dalla state fragility) e la qualità liberaldemocratica dei regimi, possiamo procedere a interpretarne l’incidenza d rispetto al rendimento qualitativo dell’azione pubblica nella sfera del benessere sociale. Segnatamente, assumiamo per quest’ultimo lo Human Development Index (HDI), costruito su valori quanti-qualitativi come la composizione demografica, il reddito nazionale lordo pro capite e gli outcome dei beni e i servizi prodotti nei campi della salute, dell’istruzione, dell’occupazione, della sicurezza sociale, dei flussi commerciali e finanziari, della mobilità e della comunicazione, altresì osservati con riferimento alla sostenibilità socio-economica e a quella ambientale (UNDP, 2020).

Per un confronto sinottico si propone la tabella sottostante, non senza qualche avvertenza. Anzitutto, per ragioni di spazio e semplificazione, assumiamo intervalli biennali nella forbice tra il 1995 (anno di introduzione del SFI) e il 2005. Quanto alla variabile della qualità democratica, si consideri che nella forbice temporale qui selezionata si situano “seconde transizioni” politiche, ossia ulteriori cambiamenti di regime intervenuti dopo l’indipendenza. In termini di democratizzazione, ciò vale per l’Estonia e la Lettonia, per la prima (2003) e la seconda (2004) Rivoluzione delle Rose in Georgia, nonché – quantunque e parziali e provvisorie nei loro effetti – per la Rivoluzione arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Autocratizzazioni si sono invece avute in Bielorussia (1994) e in Russia (1999). Infine, relativamente al HDI di taluni Paesi, si danno lacune dovute alla carenza di dati trasmessi dagli stessi all’organismo (UNDP) incaricato della loro elaborazione.

 

Fragilità statale, democraticità e sviluppo umano nelle RPS (1995-2005)

 Fonte: rielaborazione dati ricavati da Center for Systemic Peace, 2018; V-Dem, 2021; UNDP, 2021.

SFI (State Fragility Index): 0 (fragilità nulla) – 25 (fragilità estrema); LDI (Liberal Democracy Index): 0 (min.) – 1 (max.); HDI (Human Development Index): molto basso (0-349), basso (0,350-0,549), medio (0,550-0,699), alto (0,700-0,799), molto alto (0,800-1).​

Stato 1995 1997 1999 2001 2003 2005
ARM SFI: 8 SFI: 8 SFI: 8 SFI: 9 SFI: 7 SFI: 7
LDI: 0,28 LDI: 0,22 LDI: 0,21 LDI: 0,22 LDI: 0,20 LDI: 0,19
HDI: 0,627 HDI: 0,645 HDI: 0,664 HDI: 0,673 HDI: 0,691 HDI: 0,712
AZE SFI: 19 SFI: 18 SFI: 18 SFI: 16 SFI: 17 SFI: 15
LDI: 0,09 LDI: 0,09 LDI: 0,08 LDI: 0,08 LDI: 0,08 LDI: 0,07
HDI: 0,604 HDI: 0,610 HDI: 0,629 HDI: 0,643 HDI: 0,659 HDI: 0,674
BLR   SFI: 4 SFI: 5 SFI: 6 SFI: 5 SFI: 6 SFI: 4
LDI: 0,37 LDI: 0,14 LDI: 0,12 LDI: 0,11 LDI: 0,10 LDI: 0,10
HDI: 0,660 HDI: 0,670 HDI: 0,679 HDI: 0,692 HDI: 0,707 HDI: 0,727
 EST    SFI: 6  SFI: 4  SFI: 4  SFI: 1 SFI: 1  SFI: 1 
 LDI: 0,80  LDI: 0,81  LDI: 0,81 LDI: 0,81  LDI: 0,81  LDI: 0,81 
 HDI: 0,729  HDI: 0,754  HDI: 0,773  HDI: 0,797  HDI: 0,813  HDI: 0,832
 GEO    SFI: 14  SFI: 10  SFI: 11 SFI: 11  SFI: 11   SFI: 8
 LDI: 0,17 LDI: 0,21  LDI: 0,21  LDI: 0,21  LDI: 0,21   LDI: 0,40
 HDI: N.D. HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: 0,694  HDI: 0,708  HDI: 0,725
 KAZ    SFI: 10  SFI: 9  SFI: 11  SFI: 10  SFI: 8  SFI: 9
 LDI: 0,17  LDI: 0,15  LDI: 0,14 LDI: 0,14   LDI: 0,13 LDI: 0,13 
 HDI: 0,664  HDI: 0,669  HDI: 0,676  HDI: 0,700  HDI: 0,726  HDI: 0,747
 KGZ    SFI: 10  SFI: 11  SFI: 12  SFI: 10  SFI: 11  SFI: 12
 LDI: 0,18  LDI: 0,17  LDI: 0,17  LDI: 0,16  LDI: 0,16  LDI: 0,18
 HDI: 0,589  HDI: 0,601  HDI: 0,613  HDI: 0,628  HDI: 0,637  HDI: 0,642
 LTU    SFI: 3  SFI: 2  SFI: 2  SFI: 1  SFI: 1  SFI: 1
 LDI: 0,78  LDI: 0,71  LDI: 0,77  LDI: 0,77  LDI: 0,77  LDI: 0,78
 HDI: 0,710  HDI: 0,731  HDI: 0,751  HDI: 0,774  HDI: 0,797  HDI: 0,817
 LVA    SFI: 5  SFI: 5  SFI: 4  SFI: 2  SFI: 1  SFI: 1
 LDI: 0,68  LDI: 0,70  LDI: 0,70  LDI: 0,71  LDI: 0,72  LDI: 0,72
 HDI: 0,680  HDI: 0,698  HDI: 0,723  HDI: 0,753  HDI: 0,781  HDI: 0,809
 MDA    SFI: 13  SFI: 13  SFI: 12  SFI: 10  SFI: 10  SFI:8
 LDI: 0,43  LDI: 0,43  LDI: 0,47  LDI: 0,37  LDI: 0,39  LDI: 0,37
 HDI: 0,638  HDI: 0,637  HDI: 0,640  HDI: 0,651  HDI: 0,673  HDI: 0,692
 RUS    SFI: 10  SFI: 10  SFI: 11  SFI: 10  SFI: 10  SFI: 9
 LDI: 0,30  LDI: 0,29  LDI: 0,29  LDI: 0,21  LDI: 0,18  LDI: 0,16
 HDI: 0,702  HDI: 0,705  HDI: 0,711  HDI: 0,728  HDI: 0,742  HDI: 0,753
 TJK    SFI: 16  SFI: 16  SFI: 15  SFI: 16  SFI: 15  SFI: 16
 LDI: 0,06  LDI: 0,06  LDI: 0,07  LDI: 0,09  LDI: 0,09  LDI: 0,07
 HDI: 0,549  HDI: 0,540  HDI: 0,548  HDI: 0,564  HDI: 0,588  HDI: 0,607
 TKM    SFI: 10  SFI: 10  SFI: 9  SFI: 9  SFI: 11  SFI: 12
 LDI: 0,03  LDI: 0,03  LDI: 0,03  LDI: 0,02  LDI: 0,02  LDI: 0,02
 HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.
 UKR  SFI: 5 SFI: 5   SFI: 6  SFI: 5  SFI: 5  SFI: 6
   LDI: 0,35  LDI: 0,31  LDI: 0,27  LDI: 0,24  LDI: 0,27  LDI: 0,31
   HDI: 0,686  HDI: 0,686  HDI: 0,690  HDI: 0,708  HDI: 0,725  HDI: 0,738
 UZB  SFI: 14  SFI: 14  SFI: 13  SFI: 13  SFI: 17  SFI: 14
   LDI: 0,04  LDI: 0,04  LDI: 0,04  LDI: 0,03  LDI: 0,04  LDI: 0,03
   HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: 0,607  HDI: 0,619  HDI: 0,633
Fonte: rielaborazione dati ricavati da Center for Systemic Peace, 2018; V-Dem, 2021; UNDP, 2021.

SFI (State Fragility Index): 0 (fragilità nulla) – 25 (fragilità estrema); LDI (Liberal Democracy Index): 0 (min.) – 1 (max.);

HDI (Human Development Index): molto basso (0-349), basso (0,350-0,549), medio (0,550-0,699), alto (0,700-0,799), molto alto (0,800-1).

 

 

Prendendo atto dell’eterogeneità delle risultanze, possiamo tentare di leggere le correlazioni, procedendo per gruppi regionali.

Nella regione baltica troviamo Estonia, Lettonia e Lituania con uno sviluppo umano alto e in costante crescita dopo la recessione transizionale, con valori collocati in fascia apicale negli anni 2000. I valori parimenti molto elevati della state capacity e del LDI suggeriscono una correlazione positiva, quantomeno sinergica, tra l’efficacia dell’azione pubblica e il consolidamento democratico, concorrendo entrambi al rendimento espresso dal HDI.

Nella regione nord-occidentale, lo sviluppo umano in Russia si posiziona in fascia alta, associato a una state capacity medio-alta e a un LDI declinante a partire dall’autocratizzazione del 1999. Discorso analogo per lo sviluppo umano in Bielorussia, entrato nel 2002 in fascia alta, a fronte di una qualità democratica davvero bassa ma con una significativa capacità statuale. Buona la capacità anche dell’Ucraina, il cui HDI, in fascia alta dal 2001, non pare risentire delle variazioni del LDI. Situazione inversa si presenta in Moldavia, in cui lo sviluppo umano (inferiore ma in crescita) si associa a una statualità meno solida ma a una democraticità migliore (quantunque in flessione rispetto agli avvii) di quella Ucraina.

Spostandoci nella regione transcaucasica, troviamo la Georgia in forte recupero in quanto a state capacity, con un HDI in fascia alta, rendendosi evidente la svolta procurata dalla democratizzazione avviata nel 2003. Diversamente, nel caso dell’Armenia, la flessione democratica non pare incidere sullo sviluppo umano, mentre la solidità statuale si mostra costante e, anzi, in lieve crescita, nonostante la cronicizzazione del conflitto nel Nagorno-Karabakh con l’Azerbaigian. Quest’ultimo invece, dal 2002, mostra la statualità più fragile tra tutte le 15 repubbliche e una qualità democratica alquanto bassa, che si associano a uno sviluppo umano di livello medio.

Nella regione centroasiatica la bassa – bassissima in Tagikistan e Turkmenistan – qualità democratica è concomitante a uno sviluppo umano medio, analogamente a quanto si può osservare a proposito della state capacity, costituendo un’eccezione il Kazakistan relativamente a SFI e HDI. Rispetto a tali indici, l’Uzbekistan si distingue per un certo miglioramento nell’ultimo scorcio della forbice temporale (probabilmente spiegabile con il supporto ricevuto dal governo russo), mentre lo sviluppo del Kirghizistan aumenta anche in controtendenza rispetto alla fragilità statuale.

 

Lo state-(re)building e le ambivalenze dell’opzione autocratica

Dalla eterogeneità così raffigurata non si evincono correlazioni sicure e costanti. Tuttavia, un certo grado di ricorrenza – non sufficiente a riconoscere un nesso di causalità – si mostra nella concordanza positiva tra state capacity e sviluppo umano. D’altro canto, si può ipotizzare che i casi in cui l’incremento del secondo si accompagna alla flessione della prima siano addebitabili alla natura alquanto composita dell’indice HDI, in cui si ricomprendono variabili economiche particolarmente significative per i Paesi dotati di ingenti risorse naturali, tali da mettere in circolo una ricchezza sufficiente a compensare le carenze degli apparati pubblici, ovvero, della spesa sociale di Paesi che, come nel caso kazako, hanno affrontato la transizione con uno spiccato approccio neoliberale in politica economica1.

Viepiù controversa l’incidenza della democrazia, dal momento che gli effetti delle transizioni post-sovietiche non confermano puntualmente e universalmente le conseguenze deleterie attese dai regimi autocratici. Né, d’altronde, risulta immancabilmente confermata la correlazione tra democratizzazione e potenziamento della state capacity.

Una certa letteratura volgerebbe a suffragare l’ipotesi di risvolti disfunzionali in un regime vincolato a logiche elettoralistiche, costretto dal ricatto del consenso a strategie non lungimiranti, piegate a dinamiche clientelari e alla ricettività rispetto a domande frammentate e incoerenti. In definitiva, si tratterebbe di criticità analoghe a quelle rilevate sin dagli anni ’70 (Crozier et alii, 1973) in merito ai rischi di ingovernabilità e insostenibilità dovuti a una democrazia sovraccarica di richieste e aspettativa sociali. Eppure c’è da rilevare che, in linea con i suggerimenti profusi in quelle analisi, il paradigma democratico occidentale ha fatto fronte alla conclusione del “trenta gloriosi anni” del welfare state keynesiano attraverso una riprogrammazione improntata alla depoliticizzazione o alla sovranazionalizzazione di processi decisionali particolarmente nevralgici, quindi alla proliferazione di vincoli giuridici e di organismi di governance tecnocratica sottratti – giacché non elettivi – agli oneri della responsività (Casale, 2018).

Di contro, resta altamente plausibile l’argomento di un’accountability democratica quale potente incentivo all’azione performante del governo. Ma anche su questo si dà la possibilità di eccepire, sulla scorta delle suggestioni schumpeteriane, le limitate capacità di valutazione in capo al cittadino (elettore) comune nel giudicare con competenza le politiche pubbliche, di monitorarne nel tempo l’efficacia e di discernere gli effettivi responsabili dei loro esiti effettuali (Hanson, 2015).
Nondimeno, in linea teorica, può rilevarsi il vantaggio per i regimi autocratici di essere immuni dalla competizione e di adottare, con ampio margine discrezionale, misure capaci di alimentare il consenso (Acemoglu, Robinson, 2006): condizione che permetterebbe una significativa duttilità nel definire le politiche, con il vantaggio di conculcare il dissenso o di schermare l’operato del governo dalla contestazione dei gruppi sociali insoddisfatti, in assenza di sfidanti autorizzati a competere prospettando indirizzi alternativi.

È certo che il pluralismo democratico, laddove innestato in un quadro bilanciato di garanzie, vivifica la coesione della società civile attorno ai principi e la mobilita nelle forme della cittadinanza attiva, trovando nella competizione il metodo con cui selezionare le risposte prestazionali più adatte ai bisogni reali. D’altra parte, questo non impedisce di cogliere l’ambivalenza che interessa le autocrazie. In esse, l’assenza di accountability regolare ed effettiva sottrae il governante a pressioni e incentivi migliorativi, ma d’altra parte gli consente una prospettiva di lungo termine per condurre piani d’azione lineari non gravati dalle interruzioni dovute agli avvicendamenti elettorali.

Ciò riconduce al tema della stabilità e della longevità del potere approfondita da Mancur Olson (1993) in relazione al tipo di regime. In effetti, l’anomia delle fasi di travaglio transizionale risulta essere un terreno alquanto propizio per un governo irresponsabile e predatorio, esercitato da roving bandits intenti a trarre il massimo profitto per sé e a danno della società e delle istituzioni, per via dell’incertezza cui sono esposti. Diversamente, presumendo che i governanti restino pur sempre attori autointeressati, la prospettiva di maggior durata e solidità del potere contribuisce al profilo comportamentale degli stationary bandits, che finiscono per articolare i propri fini secondo strategie di lungo termine in grado di consolidare i pilastri strutturalfunzionali su cui il regime fa affidamento. Includendo l’investimento su una legittimazione alimentata dai meriti di una leadership socialmente benemerita, simile ipotesi può descrivere il caso di un’autocrazia concentrata sia sul “bastone” repressivo sia sulla “carota” consensualistica, così da infondere nell’opinione maggioritaria il senso dell’opportunità di scambiare le incertezze della libertà e della competizione con le sicurezze di un sufficiente e disciplinato benessere. Il ragionamento risulterebbe pertanto avvalorato dagli scenari in cui le turbolenze (effettive o temute) della transizione si risolvono con l’instaurazione di una leadership illiberale e decisionista, che si consolida in ragione del timore di precipitare, senza di essa, nell’anomia pregressa.

La democrazia liberale rimane l’opzione di rango più elevato, giacché, pur non consentendo una progettualità di così lungo termine, concentra l’azione del governante in un lasso di tempo in cui si rende necessario coalizzare forze e interessi eterogenei, pervenendo a compromessi estesi e inclusivi, aperti a un perenne confronto correttivo tra gli attori coinvolti. Il tutto in una cornice esente dall’aggressività difensiva che invece induce l’autocrate, nelle congiunture critiche, ad accentuare le strette dispotiche contro potenziali sfidanti, sottoponendo così a particolare stress gli apparati pubblici, sbilanciati, in quanto a risorse e attività, sul versante della repressione e del controllo.

Eppure, in assenza dei presupposti fattuali per una democratizzazione diffusa e profonda, la stabilità di un regime autocratico può rappresentare – specie in un frangente di transizione – un’alternativa utile a fronteggiare l’anomia rafforzando le infrastrutture dell’autorità (Mann, 1984) e razionalizzando il rendimento dell’azione pubblica sotto la guida di un “dittatore benevolo” (Olson, 1993). Tuttavia resta ferma la disfunzionalità costituita dall’esposizione all’arbitrio dispotico (Mann, 1984), anche laddove esso risulti in certa misura inibito dall’esigenza di costruire narrazioni legittimanti credibili (esigenza pur sempre insopprimibile per qualsiasi tipo di regime). Nel panorama della transizione post-sovietica, ciò si è sostanziato nel ricorso a un novero assai diversificato di strategie (Grauvogel, von Soest, 2016): dallo sfruttamento modernizzato delle risorse naturali più strategiche per la ricchezza nazionale (in Russia, Kazakistan, Ucraina, Uzbekistan, Turkmenistan, Azerbaigian) all’elargizione di provvidenze paternalistiche (emblematica nel caso dell’eccentrico sultanismo del Turkmenibashi Niyazov), alle politiche securitarie e di pacificazione interetnica (nell’Uzbekistan di Karimov e in Tagikistan). Al che occorre aggiungere la spiccata concentrazione sulla crescita economica (in Kazakistan e Azerbaigian), sul prestigio internazionale (in Russia), sui miti distintivi dell’identità nazionale (ancora nella Russia putiniana, in Armenia e in Ucraina), sul riassetto dell’apparato amministrativo (in Russia e Kazakistan), ovvero su un welfare universalistico impostato sulla conservazione delle architetture istituzionali del passato (Bielorussia), investendo sulla continuità in luogo di una discontinuità foriera di incertezze e contraccolpi recessivi.

 

Un “museo sovietico”: la transizione in Bielorussia

Gli elementi sin qui presentati possono trovare un significativo campo di riscontro nello state-(re)building condotto in Bielorussia dal regime di Aljaksandr Lukashenka. A capo di una commissione d’inchiesta sulla corruzione politica, egli seppe approfittare della debolezza dei partiti di governo alle prese, all’indomani dell’indipendenza, con progetti di riforma contrastati da un’opinione pubblica inquietata dalla prospettiva di una lunga spirale recessiva. Emergendo come il castigatore delle collusioni tra l’élite politica e la speculazione predatoria di gruppi imprenditoriali collegati all’Occidente, Lukashenka guidò la campagna che, nel 1994, condusse alla sfiducia del soviet supremo. Nel medesimo anno uscì vittorioso dalle elezioni presidenziali: tale l’avvio della “seconda transizione”, sostanziato da un percorso di autocratizzazione che, di riforma in riforma, avrebbe condotto le istituzioni sotto il controllo centralizzato della sua leadership (Wilson, 2012). Il tutto facendo perno sulle strutture del sistema sovietico, aggiornato seguendo una progressiva traslazione del potere d’apparato del partito comunista nelle prerogative monocratiche del presidente. In questo senso, la definizione di “museo sovietico” a proposito dell’attuale sistema bielorusso trova un’adeguata giustificazione.

Sotto il profilo economico, la continuità si è espressa nella conservazione dell’assetto industriale assegnato dall’URSS al Paese sui versanti della metallurgia, della chimica e del settore automobilistico. Nonostante le aperture alla privatizzazione, il dirigismo statalistico ha saputo perpetuarsi di fatto in ambiti nevralgici, cominciando dalla rinazionalizzazione del sistema bancario e la riconduzione al controllo governativo della banca centrale: scelta altamente funzionale a una gestione elastica del debito pubblico, in grado di consentire politiche di spesa intese ad alimentare il consenso presso gruppi sociali e comparti economici di volta in volta ritenuti più remunerativi, mediante sussidi, esenzioni fiscali e regimi tributari privilegiati (Fritz, 2007).

Altamente strategica è risultata l’integrazione nella sfera egemonica russa, dalla quale la Bielorussia ha potuto ricavare, oltre al sostegno politico e militare, prestiti, crediti commerciali e forniture energetiche a tariffe agevolate. Da ciò il sistema bielorusso ha ottenuto la possibilità di conservarsi refrattario alle innovazioni neoliberali poste dal Fondo monetario internazionale come condizione per i prestiti offerti. Inoltre, il supporto di Mosca ha permesso di accantonare disponibilità di bilancio da utilizzare in chiave redistributiva, con interventi volti a comprimere le diseguaglianze e la stratificazione sociale, procurando un livello medio stipendiale tra i più elevati della regione. Il sodalizio con la Russia, se per un verso ha spinto la pur debole opposizione politica a esaltare una certa vena identitaria e distintivamente nazionalistica, d’altra parte ha agevolato una significativa impermeabilità culturale (ancorché non commerciale) all’Occidente, sostenuta da una narrazione ideologica tesa a valorizzare i miti del passato innestandoli in un “patriottismo civico-presidenziale” centrato sulla fedeltà alle istituzioni e sull’affidamento alla tutela paterna del presidente, garante della concordia e del progresso sociali (Burckhardt, 2016).

Su questi presupposti, le riforme della “seconda transizione” hanno concentrato nella carica presidenziale cospicui poteri di iniziativa e di controllo utilizzati per consolidare un apparato amministrativo capillare e centralizzato, in grado di vigilare sull’economia, sull’attuazione dei programmi governativi e sull’impiego della proprietà pubblica, il tutto accompagnato da un costante accento sulla legalità tributaria e contabile. Particolare rilievo ha assunto, nel 1996, la previsione costituzionale della Commissione per il Controllo dello Stato, i cui membri, di nomina presidenziale, esercitano poteri inquirenti e sanzionatori nei confronti delle istituzioni politiche, del sistema amministrativo e delle imprese pubbliche. Di tale strumento si è avvalso lo state-(re)building per efficientare l’estrazione fiscale e per contrastare l’economia sommersa, erodendo il confine tra pubblico e privato ripristinato nel 1991. Ciò ha permesso di gestire le logiche di mercato aggiornando sotto nuove forme il dirigismo di epoca sovietica, abilitando il governo a impiegare la finanza pubblica con ampia duttilità, riducendo a più riprese le aliquote di imposta sui redditi di talune categorie, adottando regimi fiscali differenziati, introducendo moratorie per attrarre capitali nell’industria automobilistica, ecc. (IMF, 2004).

Di sicura rilevanza la stessa riforma della contabilità di Stato, con la previsione del Fondo di Protezione sociale e di altri fondi speciali fuori bilancio dedicati ai trasporti, all’agricoltura e alla cura delle patologie provocate dal disastro di Chernobyl. Al che si è aggiunta la possibilità in capo al presidente di adottare decreti di aggiustamento di bilancio a seguito degli scostamenti straordinari per la spesa sociale. In definitiva, si tratta di dispositivi usati per aggirare i vincoli delle leggi finanziarie e consentire provvedimenti estemporanei funzionali ad alimentare il consenso, premiando i bacini elettorali più fedeli. Il tutto perpetuando il formato di copertura e di eleggibilità alla protezione sociale vigente nell’URSS, per conferire al regime di welfare bielorusso il carattere più universalistico tra quelli istituiti nelle repubbliche post-sovietiche, seguito da quello lituano e quello estone – per i quali, invece, la discontinuità con il passato si è materializzata in un cambio di paradigma per molti versi ispirato al modello scandinavo.

Il grafico, qui elaborato sulla base dei valori qualitativi assegnati dall’Istituto V-Dem, attiene ai regimi di welfare post-sovietici mostratisi mediamente più universalistici durante la transizione 2.

Regimi di welfare maggiormente universalistici nelle RPS (1992-2005)

casale 01Fonte: rielaborazione dati V-Dem, 2021.

Dal grafico si possono confrontare i cambiamenti intervenuti nell’arco temporale considerato. In quanto a costanza, in ordine decrescente di grado, spiccano Bielorussia, Estonia e Armenia. La spezzata turkmena suggerisce le provvidenze del paternalismo di Niyazov, conservatesi immodificate per quanto assoggettate a misure di razionamento. Nell’universalismo lituano si osserva, a partire dal 2002, una flessione indicativa della maggiore conformità ai requisiti di bilancio di ispirazione neoliberale adottati ai fini dell’ingresso nella UE (2004). Segue la Moldavia, la cui incostanza riflette la competizione polarizzata tra partiti filo-occidentali e forze ancorate all’egualitarismo del passato, ma con una contrazione comunque importante dell’universalismo imposta dalle criticità economiche del Paese. Più incerto l’andamento nel caso ucraino, spiegabile con i provvedimenti antirecessivi sulla spesa pubblica ispirati dall’esigenza di alleggerire la pressione fiscale per favorire i capitali di investimento. L’incremento mostrato dal Tagikistan può rispecchiare le risposte dell’“ideologia karimovista” alle ondate di protesta contro diseguaglianza e povertà, come pure le misure intese a contenere le adesioni al jihadismo da parte della popolazione meno abbiente, con iniezioni di spesa sociale varate anche grazie ai sostegni finanziari russi e statunitensi.

In conclusione, è soprattutto la fattispecie bielorussa a segnalare un investimento sulla continuità ai fini di uno state-(re)building diretto da un regime politico illiberale e perseguito attraverso un rendimento sistemico egualitario e demercificante, tale cioè da sortire prestazioni svincolate dalle dinamiche di mercato e sufficientemente performative da giustificare l’indice di sviluppo umano del Paese durante la transizione. Da parte sua, l’indice di democraticità del regime suggerisce la divaricazione tra diritti sociali da un lato e diritti civili e politici dall’altro, che nella celebre tesi di Thomas Marshall (1964) si collocano invece in un processo di linearità evolutiva culminante in una compiuta “cittadinanza sociale”. Schema di certo non applicabile alla transizione di molte repubbliche post-sovietiche. Tra queste, appunto, la Bielorussia rileva come caso esemplare, ove il rendimento istituzionale in ordine allo sviluppo umano – con particolare riguardo alla sicurezza, all’assistenza e alla protezione sociali – è stato implicato in uno state-(re)building che ha presto sacrificato le iniziali aspettative di democratizzazione, per impostare il rapporto tra Stato e società secondo un’opzione politica di tutt’altro tenore.

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

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NOTE:
1 Può giovare la consultazione della classifica mondiale dei petrolstati del 1992, in cui la Russia si posizionava al 2° posto, il Kazakistan al 12°, l’Azerbaigian al 23°. Nel medesimo anno, tra i produttori di carbone, la Russia si collocava al 3° posto, il Kazakistan al 9°, l’Ucraina al 10°, mentre la classifica dei produttori di gas naturale vedeva la Russia al 1 posto, il Turkmenistan al 6°, l’Uzbekistan al 9°, l’Ucraina al 18°, il Kazakistan al 29° e l’Azerbaigian al 30° (U.S. Energy Information Administration, 2021).
2 Per ragioni di semplificazione escludiamo dalla rappresentazione Paesi come Kirghizistan e Lettonia, i cui sistemi di welfare risultano comunque superiori, in quanto a universalismo, al valore di soglia minimo individuato nel nostro grafico. Una menzione merita il welfare georgiano, giacché esso, mantenutosi costantemente sotto il valore di 2.75, in concomitanza con la Rivoluzione delle Rose (2003-2004) ha conosciuto un’improvvisa impennata toccando 3.75, tuttavia riportandosi ai valori precedenti immediatamente dopo l’esordio del processo di democratizzazione, sviluppato con una certa congruenza ai canoni neoliberali.

paparupdfLe categorie classiche di dittatura e totalitarismo non costituiscono strumenti adeguati ad analizzare in profondità e definire la realtà politica bielorussa. Infatti, nonostante gli evidenti e preponderanti tratti autocratici, dispotici, del regime Lukashenko – in Bielorussia vige, almeno formalmente, un sistema “democratico”, nonostante si tratti di una democrazia vuota, priva di un reale ed effettivo pluralismo. Inoltre, se storicamente quello dittatoriale, totalitario, si è configurato come sistema di governo che accentra il potere in un solo partito, e dunque nelle mani del suo leader, il dittatore, bisogna prendere atto che Lukashenko non sia mai stato legato, durante i suoi ventisette anni di potere ininterrotto, a nessun partito politico, fazione o clan. Dunque, la Bielorussia non è governata da un regime monopartitico, bensì da un sistema almeno formalmente pluralistico consistente – seppur in astratto – in una competizione tra partiti (almeno ufficialmente contrapposti) che si realizza attraverso cicli elettorali temporalmente regolari.

Allora, se il regime Lukashenko sfugge alla tradizionale categoria di dittatura, esso si può altrimenti definire, dalla mia prospettiva, come un particolare risultato dell’evoluzione del post-totalitarismo, ossia di quel regime ibrido che risulta dall’intersezione tra dittatura e democrazia e che, nel panorama del pensiero politico, è stato tematizzato per la prima volta in modo esaustivo da Vaclav Havel ne Il potere dei senza potere (Havel, 2013).

 

1 Il post-totalitarismo secondo Havel

Nel libro del 1978 Václav Havel coglie una relazione mimetica tra la società capitalista e quella comunista. Dalla sua prospettiva, quelle appaiono come due forze, due differenti manifestazioni dello stesso sistema di potere che Havel definisce con il termine “post-totalitarismo”. Anteponendo alla parola “totalitarismo” il prefisso “post”, egli indica la nuova forma di dittatura che si afferma nel blocco sovietico nell’epoca post-stalinista, e che in quanto tale si distingue dai regimi dittatoriali classici.

Di solito il sistema di governo del nostro paese viene caratterizzato come “dittatura” – la dittatura di una burocrazia politica su una società livellata. Io temo che già questa definizione, benché per altri versi comprensibile, finisca per confondere più di quanto chiarisca il reale carattere del potere in questo sistema. Che cosa ci richiama tale concetto? Direi che nella nostra coscienza è tradizionalmente legato all’immagine di un gruppo determinato e relativamente ristretto di persone che in un paese si impadronisce con la forza del potere di governare sulla maggioranza della società, fonda apertamente il proprio potere sui diretti strumenti autoritari di cui dispone e in modo relativamente facile si può distinguere socialmente dalla maggioranza dominata. Questa idea tradizionale della dittatura è caratterizzata dal postulato della sua provvisorietà, della sua precarietà e instabilità storica; la sua esistenza si presenta strettamente legata alla vita delle persone che l’hanno instaurata; di solito si tratta di un fatto di portata e di significato locali e, per quanto una simile dittatura si legittimi con l’una o l’altra ideologia, trae il suo potere soprattutto dal numero e dall’equipaggiamento dei soldati e dei poliziotti (Havel, 2013, p. 32).

Per comprendere meglio in che modo il post-totalitarismo si distingue dal totalitarismo, dalla dittatura classica, possiamo mettere in comunicazione Havel con Carl Schmitt. Assumendo il punto di vista schmittiano potremmo definire la dittatura come il risultato di un’evoluzione della sovranità che caratterizza lo Stato moderno. In altre parole, la dittatura che si manifestata alla storia nel secolo scorso può essere compreso, in quest’ottica, come una riconfigurazione della sovranità moderna, che in quanto tale è caratterizzata da una certa tendenza, un certo orientamento verso la dittatura (Schmitt, 2006, p. 33).

Dunque la dittatura è legata, e limitata, al territorio su cui un certo Stato esercita la propria sovranità, che consiste nel monopolio, in un certo perimetro territoriale, sulla legge e sulla forza. Allora, come dice Havel, essa è un fenomeno locale, relativo esclusivamente al territorio di un certo Stato nazionale. Inoltre, il sistema dittatoriale classico è, sempre da un punto di vista schmittiano, costitutivamente legato alla persona del dittatore, alla sua volontà, alla sua “decisione” (e la decisione è sempre del singolo), ossia alla sua posizione di eccezionalità – di eccedenza rispetto alla norma che egli pone, ma da cui è al tempo stesso immune (Schmitt, 2020, pp. 61-74). È in questo senso allora che, come abbiamo già letto, la dittatura è «strettamente legata alla vita delle persone che l’hanno instaurata». Nella visione schmittiana, il tratto distintivo del potere dittatoriale è l’eccezionalità. La dittatura trova la sua condizione di possibilità nello “stato di eccezione”, dove il dittatore, o il ristretto gruppo di persone con cui quello gestisce il potere, “eccede” la legge, che è immune rispetto ad essa, ma soprattutto che questo può imporre la propria norma solo a partire da un originario stato di caos, da una situazione eccezionale che esiga e giustifichi l’incontestabile applicazione e osservanza della norma che quello pone. La dittatura classica, dunque, trova il suo originario fondamento nel caos. È per questo che a essa è connaturata un’intrinseca «provvisorietà, precarietà e instabilità» (Havel, p. 32).

Al contrario, il potere sovietico post-stalinista – post-totalitario – è completamente svuotato di qualsiasi contenuto personale. Questa impersonalità del potere ha una radice “spaziale”: rispetto alla dittatura classica che presenta una natura locale, il (post-)totalitarismo comunista assume connotati “globali”. Infatti, a partire da un centro originario – la Russia sovietica – esso si propaga lungo un’area geografica di immense proporzioni, replicandosi fino a svuotarsi di identità e a generare un potere anonimo, nel cui contesto i leader agiscono come mere funzioni prive di volontà individuale, al servizio di un sistema che si alimenta da sé stesso (Havel, p. 50). Ora, proprio grazie a questa “anonimità”, il potere post-totalitario riesce a pervadere ogni lembo della vita umana, manipolando la vita stessa in profondità, fino ad anestetizzare ogni sua possibilità di eccedenza, di trascendenza rispetto al sistema (Havel, p. 51).

Ma in che modo un simile potere senza volto riesce a insinuarsi totalmente nella vita umana? Qual è lo strumento della sua assoluta pervasione? Lo strumento è qui un’ideologia che subisce la stessa mutazione spaziale di questo totalitarismo di forma nuova, di questa dittatura globale. Il messaggio ideologico, infatti, diffuso, riprodotto lungo un vasto territorio, viene completamente sradicato dalla vita reale dei singoli cittadini, e conseguentemente si riduce a slogan vuoto, rituale meccanico.

Quest’ultimo non pretende dall’individuo, così come invece accade nella dittatura classica, nessuna partecipazione personale, ma solo un’accettazione esteriore, un rispetto meramente formale dei codici dell’autorità. Al potere non interessa che l’individuo sia interiormente convinto del messaggio ideologico che recepisce e che deve contribuire a disseminare. L’individuo deve solo vivere nella menzogna ideologica, nonostante sia consapevole che si tratta di una menzogna. Deve solo partecipare al gioco ben sapendo che si tratta di un gioco, e dunque senza contestare le regole prefissate. Ovvero, il cittadino non ha, non deve avere, nessuna coscienza del meccanismo di potere a cui partecipa (Havel, pp. 34-49). In questo scenario depoliticizzato, l’interesse del singolo individuo si focalizza esclusivamente sul vantaggio personale, sui bisogni e sui desideri privati. Più precisamente, è il potere stesso che, per mantenere e sviluppare un controllo sempre più esclusivo e sempre più totale del campo politico distoglie l’attenzione dei cittadini dalla sfera pubblica, spostandola verso quella della loro privatezza. Conseguentemente, questa fissazione nel desiderio personale genera e alimenta, inevitabilmente, la tendenza alla ricerca della soddisfazione materiale e la conseguente diffusione di un consumismo di matrice occidentale, verso cui il regime post-totalitario incanala le energie personali per sottrarle alla sfera politica (Havel, 2013: 7).

 

2 Il post-totalitarismo nella prospettiva di Juan J. Linz e Alfred Stepan

Per approfondire la definizione della categoria di post-totalitarismo prenderò come principale punto riferimento il lavoro di Juan J. Linz e Alfred Stepan, che nel volume intitolato Problems of Democratic Transition and Consolidation offrono quella che fino ad oggi è forse la più completa analisi del post-totalitarismo, sia nell’ambito della scienza politica che in quello degli studi storici.

In generale, un regime post-totalitario si distingue da un sistema totalitario nella misura in cui esso presenta, rispetto al secondo, un limitato pluralismo sociale, culturale ed economico (ma non politico) che si struttura sotterraneamente rispetto al potere statale. In altre parole, se il totalitarismo soffoca completamente ogni possibilità per l’articolazione di un’opposizione un sistema post-totalitario è tale nella misura in cui concede, per scelta o per declino, lo spazio sociale per lo sviluppo di un’alternativa al regime. Una simile alternativa cresce in modo sotterraneo, fino a emergere poi quasi in superficie, per strutturarsi come vera e propria società parallela rispetto agli apparati del partito che continua, almeno formalmente, ad esercitare il monopolio totale sul potere (Linz, Stepan, 1996, p. 44).

Con la fine dell’epoca staliniana, la maggior parte di quelli che allora erano i regimi dei paesi comunisti dell’Europa orientale e centro-orientale convertirono, attraverso vie e modalità differenti, la loro struttura totalitaria in un sistema post-totalitario. Si evince, dunque, che il post-totalitarismo è originariamente radicato nel sistema totalitario e si manifesta come risultato dell’evoluzione e dell’adattamento di quello ai mutamenti epocali determinati dalla fine dello stalinismo e alle nuove dinamiche sociali di cui quei regimi fecero esperienza. Il post-totalitarismo, quindi, è un fenomeno politico evolutivo, che dunque è mutato per adattarsi al nuovo ambiente socio-economico-culturale aperto dal collasso dell’ex Unione sovietica e dalla transizione democratica dell’ex blocco comunista.

Quella post-totalitaria è, secondo Havel, una società prodotta dall’incrocio tra una struttura politico-economica di natura statalista e un modo di essere nel mondo di matrice individualistico-capitalista. Invece, dalla loro prospettiva di politologi, Linz e Stepan, individuano il tratto distintivo del post-totalitarismo, rispetto al sistema totalitario, nel pluralismo. Ossia, i due considerano la democrazia ibridata con la dittatura proprio alla luce del concetto di democrazia rappresentativa, ossia in base all’idea liberale della democrazia come sistema finalizzato alla rappresentazione parlamentare ad una gamma più vasta possibile di condizioni socio-economiche e di culture politiche. In quest’ottica, quella post-totalitaria è vista come una società totalitaria la cui struttura chiusa è incrinata e dunque in qualche modo aperta da una tendenza pluralistica che conduce all’articolazione di una più meno trasparente o clandestina opposizione sociale (ma non politica), la quale a sua volta trascina lo Stato verso il passaggio a una forma democratica di governo. Dunque, se Havel, nella sua posizione di dissidente e oppositore del regime comunista cecoslovacco, coglie per lo più l’aspetto decadente e soffocante del post-totalitarismo, Linz e Stepan, osservando il post-totalitarismo da una prospettiva post-comunista, si soffermano sul suo rovescio, cogliendone la portata pluralistica e rappresentandolo dunque come una necessaria fase della transizione democratica. Infatti, approfondendo il concetto di “polis parallela” esposto dallo stesso Havel in Il Potere dei senza potere, i due colgono nel sistema post-totalitario un costitutivo spazio di pluralismo ‒ che a sua volta si afferma come invariante del fenomeno post-totalitario e quindi come unità di misura di diversi livelli di post-totalitarismo. Più precisamente, essi definiscono il post-totalitarismo sulla base di quattro fattori fondamentali: pluralismo, ideologia, leadership e mobilitazione. Tra questi, il pluralismo si afferma come fattore primario, il fattore da cui dipende la variazione del post-totalitarismo in tre diversi gradi. È classificabile come «post-totalitarismo precoce» quel regime che rimane molto simile all’idealtipo totalitario, pur differendo da esso in virtù di qualche limite posto nei confronti del leader. Invece, in quei regimi dove, nonostante la presenza di una certa dose di pluralismo e di critica civile, il potere statale rimane monolitico, inscalfibile e capace di esercitare un controllo altamente pervasivo abbiamo per lungo tempo un «post-totalitarismo congelato», ossia un sistema post-totalitario che non riesce ad evolvere verso la dimensione democratica, cristallizzandosi, dunque, nel suo sostrato totalitario. Infine, abbiamo a che fare con un «post-totalitarismo maturo» lì dove si verificano significativi cambiamenti, in prospettiva pluralistica e democratica, a vari livelli del regime e dove la «polis parallela» si consolida sempre di più fino a manifestarsi alla società e alla cittadinanza come credibile e legittima alternativa politica.

 

3 Il post-totalitarismo di Lukashenko.

A prima vista, gli studi più accreditati dedicati alla Bielorussia di Lukashenko sembrano sconfessare la mia tesi, collocando il regime Lukashenko sotto la categoria di autoritarismo: il libro firmato da Andrew Wilson nel 2021 – sebbene ricorra impropriamente, a mio avviso, alla categoria di dittatura – dedica ben due capitoli al processo e alle tappe attraverso cui Lukashenko e il suo circolo di potere hanno costruito, secondo la prospettiva dell’autore, uno stato autoritario; invece, l’importante lavoro di Matthew Frear (2020) definisce il regime bielorusso come un esempio particolare di “autoritarismo adattativo”. In realtà, le analisi che definiscono il regime di Lukashenko in termini di autoritarismo non negano la validità della proposta avanzata da questo studio. Piuttosto, esse rappresentano per esso degli indispensabili punti di riferimento. Infatti, con questo lavoro intendo dimostrare, più precisamente, che il regime Lukashenko costituisce un caso particolare di un più generale processo di mutamento attraverso cui il sistema post-totalitario, a partire dal collasso dell’impero sovietico, si fonde con quello autoritario.

Ora, è nel campo economico che dobbiamo cercare le prove dell’anima post-totalitaria del suo regime.

Se con il concetto di post-totalitarismo Havel indica l’era post-staliniana della dittatura sovietica e se la civiltà consumistica è ovviamente la civiltà partorita dal capitalismo occidentale, allora il sistema economico dell’ordine post-totalitario visto da Havel non può essere che una forma di capitalismo di Stato.

Il capitalismo statale di epoca leninista-stalinista innescò un processo di accumulazione di capitale, con la conseguente affermazione di una classe capitalista di stato, che era privilegiata nel godimento di comfort e beni di lusso inaccessibili alla classe lavoratrice. Ciononostante, quel capitalismo di stato predilesse sempre la produzione e la commercializzazione dei beni strumentali (mezzi di produzione) rispetto a quella di quei beni di consumo concepiti per soddisfare il bisogno individuale di benessere. Infatti, se il modello stalinista aveva avuto qualche successo nella creazione di una «terza era» dell’economia industriale, esso non riuscì o non volle mai adattarsi alla «quarta era», quella delle automobili, degli elettrodomestici e dei servizi con i quali coccolare e viziare la massa lavoratrice (Chirot, 2005, p. 24). Invece, a partire dagli anni sessanta i leader sovietici esortarono i paesi est-europei a recuperare il ritardo industriale ed economico nei confronti del mondo capitalista agganciandosi al mercato occidentale (come poi la Cina fece sistematicamente a partire dal 1978). Ciò comportò il ricorso a finanziamenti esteri per acquistare tecnologia avanzata e per rivenderla poi al mondo occidentale al fine di ripianare il debito.

Tutto questo provocò un’inevitabile crescita dei prezzi, che a sua volta contribuì e generare visibili ineguaglianze sociali tra un ristretto gruppo di imprenditori e il resto della popolazione.

Pur non riuscendo a superare le rigidità del modello stalinista ancora intrinseca agli apparati economici dei paesi comunisti, questi tentativi di riforme pro-mercato iniettarono nel tessuto sociale di quei paesi un’ampia dose di individualismo, di corruzione e di idee e attitudini consumistiche proprie al mondo capitalistico occidentale (Chirot, p. 26).

Ebbene, questo processo riformatore non ha in fondo prodotto i risultati di crescita economica sperati dalle leadership comuniste. Tuttavia, esso ha, da un punto di vista antropologico, impresso uno slancio decisivo alla diffusione nel mondo sovietico, comunista, di quell’individualismo deresponsabilizzante e atomizzante che Havel stesso coglie come preminente cifra morale e politica del post-totalitarismo.

Ora, il collasso dell’Unione Sovietica e la fine dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est hanno innescato una diffusione planetaria dell’economia consumistica e finanziaria, che si è ineluttabilmente radicata anche in quei paesi dove il ruolo dello Stato è ancora forte e dove il livello di welfare state è ancora più alto rispetto al mondo occidentale. A partire da ciò, si potrebbe concludere che l’odierno capitalismo di stato abbia una natura fondamentalmente post-totalitaria.

Date queste premesse, è possibile avanzare la seguente ipotesi: se in Bielorussia si può individuare una forma moderna di capitalismo di stato, allora il regime Lukashenko può essere collocato sotto la categoria di post-totalitarismo.

 

4 Welfare e capitalismo di Stato in Bielorussia

La Bielorussia gode di un welfare state tra i più avanzati a livello globale. Al contrario di molte economie di transizione, essa è riuscita a sviluppare un estensivo sistema di sicurezza sociale (Korosteleva, 2007, pp. 231-232). Un simile livello di protezione sociale ed eguaglianza è il risultato di un rigido e capillare controllo statale della vita economica del paese.

All’inizio della sua carriera presidenziale, tra il 1994 e il 1995, Lukashenko voleva a tutti i costi apparire come un riformatore. Così, seguendo la scia del processo di liberalizzazione intrapreso nel 1992 dalle élite al potere egli sembrò, nei primi mesi successivi alla sua elezione, proseguire sulla strada delle riforme pro libero mercato. Lukashenko aveva vinto le elezioni da outsider proponendo il progetto di unificazione tra Bielorussia e Russia come uno dei pezzi forti della sua campagna elettorale populista. Inizialmente, dunque, egli avallò il processo di liberalizzazione con il reale obbiettivo di allettare la Russia liberista di Boris Eltsin (Wilson, p. 169).

La vocazione liberista di Lukashenko ebbe però vita breve. Infatti, dopo questo primo periodo di infatuazione per l’economia di mercato egli comprese che la sua base sociale più forte era costituita principalmente da pensionati e da lavoratori agricoli, che non esitarono a protestare per i primi aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità. Così al fine di preservare quella base, e per non sgretolare il potere che stava costruendo, egli fece repentinamente marcia indietro abbandonando i propositi di riforma e le prospettive liberiste appena aperte (Wilson, p. 170). Inoltre, dopo la svolta autoritaria impressa dai referendum del 1995 e del 1996, Lukashenko individuò in una politica economica socialmente orientata il mezzo più efficace per guadagnare il consenso e la fedeltà popolare e, conseguentemente, per proteggere e consolidare il suo potere e quello delle élite del suo regime (Korosteleva, 2007, p. 223). Così, dopo più di dieci anni di transizione, la Bielorussia si affermò come una delle economie meno trasformate di tutta l’area post-sovietica e post-comunista, con solo il 25 per cento del PIL proveniente dal settore privato (Korosteleva, p. 223; Lawson, 2018, p. 126; Wilson, p. 240). Lo Stato sviluppò un pervasivo controllo e un’articolata regolazione dell’economia con interventi che si estesero ad ogni possibile campo dell’economia.

In un simile quadro economico, l’impresa privata è stata sistematicamente minata, soffocata e dunque assorbita dall’organismo statale. Dopo il 1995, infatti, l’originario programma di privatizzazione si trasformò in un più modesto piano di parziale decentralizzazione, che consistette nel trasformare le imprese statali in società per azioni in cui lo Stato conservava una quota di maggioranza, o almeno superiore al 25 per cento. Ciò garantì allo Stato stesso un illimitato diritto di veto su ogni decisione riguardante la vita delle società (Korosteleva, p. 225).

Accanto a questo meccanismo di privatizzazione centralizzata, il regime ha strutturato un sofisticato sistema burocratico di autorizzazione statale per la nascita di nuove aziende, che si è rivelato uno strumento di limitazione dell’impresa privata, e di conseguente neutralizzazione di potenziali rivali dello Stato in campo economico. (Frear, p. 49; Korosteleva, p. 226).

Ebbene, se la politica di Lukashenko possiede i caratteri del capitalismo di Stato, possiamo dedurre, allora, che in Bielorussia vige un ordine dal carattere post-totalitario. Infatti, nell’era del mercato globale, ovunque (fatta salva forse qualche eccezione) il capitalismo di Stato non può conservare l’originaria natura leniniana e staliniana, e dunque assume inevitabilmente i tratti consumistici e individualistici del capitalismo occidentale, determinando conseguentemente quell’intersezione tra statalismo e civiltà dei consumi che risulta, come abbiamo appreso da Havel, nel post-totalitarismo.

Nella misura in cui neanche il capitalismo di Stato bielorusso è immune da fattori tipici della civiltà dei consumi, è possibile affermare che il regime Lukashenko costituisca una forma di post-totalitarismo, o meglio un caso particolare del mutamento del post-totalitarismo successivo alla fine del mondo sovietico e comunista: l’ordine di Lukashenko potrebbe essere definito come l’effetto di un incrocio tra post-totalitarismo e autoritarismo.

A questo punto, è proprio dalla definizione lukashenkiana dell’economia bielorussa come “economia sociale di mercato” che possiamo e dobbiamo muovere per fare luce sul livello di compromissione del capitalismo di Stato bielorusso con il capitalismo di marca occidentale, il capitalismo globale e finanziario, e per fare dunque luce sulla natura post-totalitaria dell’ordine politico e sociale stabilito da Lukashenko. L’economia sociale di mercato prevede, in contrapposizione rispetto al liberalismo classico del laissez-faire, uno Stato forte, orientato a proteggere il mercato dalla voracità dei monopoli e dalla speculazione finanziaria. In nessun modo, tuttavia, essa promuove una pianificazione economica centralizzata o una politica statale interventista (Felice, 2008 pp. 22-23). È per questo che non è corretto sussumere sotto quel paradigma la politica economica di Lukashenko, che piuttosto si rifà alla summenzionata «economia socialista di mercato» di matrice cinese. Quest’ultima consiste in un sistema ibrido in cui la pianificazione statale si combina con il libero mercato, che a sua volta conserva inevitabilmente tratti e tendenze del mondo occidentale, capitalista, in cui originariamente sorge e continua a espandersi. Pertanto, lungi dall’essere alternativo al capitalismo, lo Stato bielorusso, così come quello cinese, si fonde in realtà con esso, se ne appropria e lo gestisce, lo influenza, lo manipola. E impossessandosene, dirigendolo, esso assimila, rielabora e diffonde, lungo i diversi strati dell’economia e della società, gli elementi più propriamente utilitaristici ed edonistici ‒ consumistici ‒ insiti nello stesso capitalismo, anche laddove quest’ultimo sia “di Stato” (Kurlantzik, 2016).

Se ci chiediamo in che modo il regime Lukashenko sia riuscito negli anni a sostenere l’alto livello di welfare e di dirigismo statale, scopriamo che la pianificazione centralizzata dell’economia e la solida protezione sociale sono state alimentate, in realtà, dai profitti che il regime ha ottenuto grazie alle sue relazioni con il mercato globale, dal quale ha inevitabilmente assimilato elementi di liberismo e pratiche di limitazione dei diritti dei lavoratori.
Innanzitutto, l’economia di Minsk, così come l’intera economia mondiale, è inevitabilmente legata al credito estero, e dunque alle logiche finanziarie del capitalismo globale. I finanziamenti elargiti dalla Russia costituiscono il 40% del debito estero bielorusso, mentre il secondo maggiore finanziatore è la Cina, nei cui confronti la Bielorussia ha accumulato il 26% del suo debito. Nel 2019, i principali investimenti stranieri arrivavano dalla Russia (44,2%), poi dal Regno Unito (19,7%), Cipro (6,6%), paesi che registrano una significativa presenza di capitale russo (Cadoppi, 2020, p. 84).

La Federazione Russa agisce come il principale investitore straniero in Bielorussia; più precisamente, il suo investimento può essere considerato come l’originaria condizione di possibilità delle efficienti politiche sociali bielorusse. Cioè, il regime Lukashenko è riuscito negli anni a garantire un alto livello di welfare-state all’interno grazie alle relazioni finanziarie e commerciali intrattenute, all’esterno, con la Russia, e grazie ai vantaggi che, in virtù di queste stesse relazioni, la Bielorussia ha potuto ottenere dal mercato globale.

Inizialmente, la pianificazione dell’economia bielorussa fu resa possibile per lo più grazie a una serie di strategici favori economici concessi dalla Russia alla Bielorussia. In effetti, lo scambio commerciale con la Russia si intensificò notevolmente durante il primo periodo della presidenza Lukashenko. Nel corso del tempo, poi, la Bielorussia definì un doppio modello di export dipendente dalla Russia: quello industriale e agricolo diretto verso la Russia e quello di materiale grezzo diretto verso l’Unione Europea, ma favorito da una produzione a basso costo resa possibile, a sua volta, dall’acquisto di energia russa a prezzi assai convenienti. Inoltre, il successo di questa attività di export rese possibile lo sviluppo di una nuova economia di consumo, che diede frutti fino allo scoppio della crisi economia del 2008 (Wilson, p. 241).

Accanto al gas anche il petrolio ha giocato un ruolo decisivo. Infatti, con Lukashenko la Bielorussia si è affermata, tra il 2003 e il 2006, come uno Stato offshore del petrolio grazie a uno schema che ha garantito un enorme quantità di profitti: la Bielorussia riceve greggio dalla Russia ad un prezzo molto basso, lo raffina e riesce a realizzare un guadagno altissimo grazie alla vendita, a tariffe assai competitive, del prodotto raffinato sul mercato europeo e mondiale (Cadoppi, p. 85; Wilson, p. 245). Nel tempo, un simile schema ha garantito a Lukashenko un ingente quantità di denaro cash utile ad accontentare le élites e a finanziare la sua politica economica fatta, come sappiamo, di semi-pianificazione e di elevata protezione sociale (Wilson 2021, p. 245). È stato così, allora, che lo statalismo bielorusso si è incontrato e si è compromesso con il capitalismo globale, generatore inarrestabile di consumo e di diseguaglianze. È proprio sulla base di questa intersezione che, proprio come accade in Cina e del resto nell’intero mercato mondiale, in Bielorussia sono state create delle zone speciali dove gruppi multinazionali, provenienti soprattutto dal nord Europa, possono agire liberamente in deroga alla legislazione nazionale.

Dal mercato globale lo statalismo bielorusso non poteva non importare, assimilare, la vocazione liberista alla violazione dei diritti dei lavoratori, violazione che in un contesto autoritario viene esacerbata e perfezionata dalla violenza di brutali metodi repressivi. Infatti, nel corso degli anni di presidenza Lukashenko, l’Organizzazione internazionale del Lavoro ha più di una volta denunciato gli abusi sui lavori perpetrati in Bielorussia. Non possiamo fare a meno di soffermare lo sguardo sulla dura repressione subita da quei lavoratori bielorussi che nel 2020 hanno preso parte alle proteste contro il regime. Molti sono stati picchiati, perseguitati, arrestati e licenziati per aver partecipato alle manifestazioni seguite alle elezioni manipolate di quell’agosto.

L’implicazione della centralizzante autorità statale bielorussa con settori del capitalismo globale, consumistico, costituisce, se osserviamo tutto ciò da una prospettiva haveliana, il nucleo post-totalitario del regime politico bielorusso. Tuttavia, se il regime Lukashenko è post-totalitario lo è in quanto effetto di un processo di mutamento che ha condotto lo stesso sistema post-totalitario a combinarsi con quello autoritario. Più precisamente, potremmo concludere che il sistema post-totalitario, il quale è già in sé stesso un fenomeno ibrido ed evolutivo, è evoluto verso un secondo grado di ibridazione, quella tra esso stesso (che è totalitarismo comunista combinato alla democrazia capitalista) e la gestione autoritaria del potere. E allora la Bielorussia di Lukashenko può essere compresa come un caso particolare di quest’evoluzione, di questa nuova intersezione.

 

 Riccardo Paparusso

 

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

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Felice Flavio (2008), L’economia sociale di mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Frear Matthew (2021), Belarus under Lukashenka: Adaptive Authoritarianism, London – New York, Routledge.
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Korosteleva Julia (2007), Belarus: Heading towards State Capitalism?, in David Lane, Martin Myant (eds.), Varieties of Capitalism in Post-Communist Countries, London, Palgrave Macmillan.
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Linz Juan, Stepan Alfred (1996), Problems of Democratic Transition and Consolidation. Southern Europe, South America and Post-Communist Europe, Baltimore - London, The Johns Hopkins University Press.
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Schmitt Carl (2020), Le categorie del ‘politico’, Bologna, il Mulino.
Wilson Andrew (2021), Belarus: The Last European Dictatorship, New Haven, Yale University Press.

 

editoriale

pdfSebbene le contemporanee sirene emergenziali inducano ipotizzare che lo stato d’eccezione stia assurgendo, con inusitata perversione, a condizione ordinaria, il lemma “crisi” evoca ancora un particolare momento di sfida in cui affrontare possibili scenari di rottura e nuovi inizi. Ma “crisi” è anche un frangente di schietto disvelamento, che conduce a nudità quanto occultato dalla distrazione routinaria dei tempi consueti. Muovendo da questo significato, gli autori degli articoli di questo numero di Oikonomia hanno intrapreso un lavoro di studio nell’ambito del “Programma Crisis” condotto tra il 2020 e il 2021 dalla Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino – “Angelicum” con il finanziamento di una fondazione internazionale, al fine di promuovere progetti di ricerca sollecitati dal recente evento pandemico. Segnatamente, i contributi qui offerti traggono temi e contenuti dalle risultanze della ricerca che troverà estesa evidenza nel volume Regime politico e regime di welfare in area post-sovietica: il caso della Bielorussia oltre il Covid-19 per i tipi di Angelicum University Press.

Dunque, crisi. Ma quale il nesso con il welfare? Perché il contesto post-sovietico e, segnatamente, proprio la Bielorussia? E quale l’attinenza con l’ambito sanitario? Proviamo a tracciare il filo rosso di una risposta ragionevolmente articolata che soddisfi gli interrogativi.

Sotto diversi profili, la vicenda pandemica sta inducendo a revisione il rapporto tra le istituzioni statali e l’ambiente socioeconomico, impostando inedite formule relazionali, di tenore protettivo, tra l’autorità politica e la realtà sociale, non senza implicazioni problematiche e opzioni divisive. Ma non ovunque. In alcune parti di mondo, la gestione dell’emergenza si è caratterizzata per un’ostentata “normalizzazione”, secondo un deliberato registro di continuità, giustificato dall’intento di preservare la cittadinanza e il tessuto economico da azioni inappropriate e foriere di conseguenze dannose. È stato questo il caso della Bielorussia, segnalatasi nelle cronache del 2020 per il rifiuto del governo di introdurre misure restrittive e di prevenzione del contagio analoghe a quelle adottate in diverse (non tutte) democrazie occidentali.

La circostanza suggerisce di riflettere sui presupposti di tale divergenza, allargando lo sguardo sul welfare quale dimensione privilegiata in cui esplorare principi, finalità e strumenti implicati nella configurazione del nesso tra Stato e società, nei termini concretamente definiti, al di là del formale ordinamento giuridico, dai soggetti istituzionali, dall’élite politica e dal più o meno evidente complesso degli attori decisionali che incarnano la “costituzione materiale” di un Paese (e non solo). Secondo tale prospettiva, legislazioni e politiche sociali, con i criteri delle loro effettive attuazioni, finiscono così per rivelare molto più di quanto emerge dagli schemi estrinseci con cui i regimi di welfare articolano metodi e tecniche di protezione sociale, di garanzia del benessere dei cittadini e di promozione dello sviluppo umano. L’ambito sanitario, in tale contesto, assume oltretutto un campo d’indagine particolarmente denso di implicazioni, giacché attiene in maniera immediata ai compiti della funzione pubblica relativamente alla dimensione primigenia ed elementare della socialità, ossia alla sfera vitale (conseguentemente di rilevanza biopolitica) della persona umana.

Più in generale, nel welfare possiamo riconoscere, perforando le schermature narrative e le rappresentazioni retoriche, la ratio fondamentale che innerva un sistema politico, il suo modo di concepire i cittadini e di come declinare fattivamente, coordinandoli, concetti come libertà, eguaglianza, giustizia, equità, dignità, in seno all’impianto dei diritti formalmente riconosciuti. Nei requisiti di elezione delle prestazioni, nelle logiche di intervento, nel finanziamento delle soluzioni si possono riconoscere le gerarchie valoriali, in ragione dell’impegno da sostenere per attestare, nei fatti, le priorità sancite nella lettera delle norme e nei combinati disposti delle petizioni programmatiche. Anche in questo caso, sono le congiunture di crisi, quantunque sofferte e destabilizzanti, a condurre in superficie quanto resta celato dal velame dell’inconsapevole e conformistica “normalità”.

Per altro verso, la storia del welfare state insegna che le politiche sociali possono costituire il terreno di contatto tra regimi di diversa natura, accomunati dall’esigenza di avvalorare la propria legittimità per il tramite di un consenso costruito sul piano del benessere minimo garantito. Vale a dire: nei termini dello scambio fisiologico tra governanti e governati su cui si sostengono realisticamente i ruoli e i rapporti dell’obbligazione politica. Ma con un discrimine significativo che misura, su un piano qualitativo, i gradi della distanza tra democrazie liberali e democrazie difettive, ovvero, più radicalmente, tra democrazie e autocrazie: giacché se nelle prime il welfare dovrebbe esso stesso prestarsi a strumento promozionale della cittadinanza sociale e politicamente attiva, nelle seconde esso può rappresentare la remunerazione per la libertà sacrificata nel sinallagma più o meno esplicito.

Con tale differenza non si intende asseverare – né tantomeno esaltare con apodittica soddisfazione – la superiorità di talune culture e civiltà rispetto ad altre. Piuttosto, si tratta di suggerire un esercizio di (auto)critica utile anche alle società democratiche, laddove esse risultino talmente assuefatte alle proprie autocelebrazioni da ignorare il rischio che le provvidenze graziosamente elargite dopo una preventiva destrutturazione dei sistemi di welfare costituiscano il compenso ottriato in cambio di una silente acquiescenza a indirizzi riformistici egemonizzati dalla variabile indipendente del mercato. Soluzione, quest’ultima, che d’altronde può concorrere a spiegare anche alcune delle circostanze in cui, a dispetto delle entusiastiche attese del “mondo libero”, la transizione post-sovietica si è risolta nell’instaurazione di regimi illiberali che, come in Bielorussia, hanno investito sul timore sociale – già gravato dalla crisi recessiva – di dover pagare il costo della “modernizzazione” aderendo alle ricette neoliberali varate nell’Occidente democratico.

Per ricavare una comprensione sufficientemente validata dalla realtà, occorre senz’altro cimentarsi in analisi e comparazioni di diverso apporto metodologico e disciplinare, in grado di attingere in profondità e in estensione (storica, politologica, sociologica, economica ed etico-filosofica) le componenti su cui fondare ipotesi interpretative e asserti scientificamente ponderati. Secondo simili coordinate hanno inteso operare i cinque ricercatori che si pregiano di offrire ai lettori di questo numero un saggio dello studio in esordio richiamato. Un lavoro che, per quanto comune, non si risolve in conclusioni univoche, nella misura in cui le valutazioni espresse sul regime politico della Repubblica di Bielorussia sono da riferirsi esclusivamente ai rispettivi autori, non essendo rappresentative di considerazioni unitarie e coralmente indistinte da parte di tutti i membri del gruppo di ricerca.

 

Giuseppe Casale

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

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